STORIA E ANTROPOLOGIA. Lettera dopo un dibattito tra amici.

Cari Franco, Fabio, Paolo, Giulio, siamo ancora oggi, cioè il domani di ieri quando minacciavo uno scritto ontologico su ciò che viene detto Storia.

Comincio da una delle tante verità che Fabio spesso (non sempre, che diamine!) elargisce: “la storia sincronica, imparentata, come dici, con l’antropologia,  è semplicemente un’elaborazione mentale, basata sul ricordo, della storia diacronica: quest’ultima appartiene al Reale, anche se possiamo soltanto rappresentarcela a seconda delle nostre capacità; la prima, invece, appartiene parte all’Immaginario e parte al Simbolico”.

Continuo con un’altra verità che, con le altre due, farà da esergo dello scritto che seguirà: la Storia insegna che la Storia non insegna un fico secco.

E ancora una terza, dopo basta: la scienza detta Storia (storicistica o storiografica, che immagina di poter ripercorrere il tempo degli ultimi 10.000 anni a ritroso per ciò che può riguardare gli eventi umani) sta alla Storia REALE (perciò praticamente ignota perché segnata da cambiamenti infinitesimali nella dimensione micro dell’esperienza umana e troppo sovrastanti in quella macro, diciamo collettiva, per capirci)  come la scienza antropologica, che immagina di poter ignorare il tempo degli ultimi 10.000 anni per ciò che può riguardare gli eventi umani ricorrenti nel loro senso e diversi nel significato solo simbolicamente, sta alla condizione umana REALE, e perciò praticamente ignota per i motivi di cui sopra in parentesi.

Non ci impediscano queste tre verità presupposte tali, dal cercarne altre.

Vi sarete da tempo accorti che non siamo sempre soddisfatti di come ci vanno le cose. Vi siete accorti che per spiegare il fenomeno spesso chiamiamo in causa il comportamento altrui? Di sicuro sì. Bene, lo storico pensa che gli esseri umani avrebbero potuto comportarsi diversamente e meglio in passato, magari tanto da non dover recriminare nulla, durante il processo di cause ed effetti eventuali di cui il nostro (parziale) scontento attuale sarebbe l’effetto ultimo. L’antropologo scarta per principio questa ipotesi su base induttiva/deduttiva arguendo che, se l’essere umano fosse capace di modificare a volontà il suo proprio comportamento, avrebbe provveduto per tempo a dei rimedi, mentre ancora non pare, appunto in base a ciò che si percepisce dei suoi atti o parole, che si accinga a provvedervi in ordine a una condivisa Norma del Miglior Vivere.

È perciò altamente probabile che qualche fattore non ben individuato renda perduranti i motivi per cui non siamo pienamente soddisfatti di come ci vanno le cose.

Questi motivi sono stati e sono immaginati nei modi più vari, si è detto del peccato originale in senso biblico letterale e in quello metaforico in cui la “conoscenza” attinge a tutti i sistemi di pensiero, che però non esisterebbero (o nulla di essi si saprebbe) senza il linguaggio naturale, cioè senza il LOGOS che, pur declinato in lingue diverse, qualora si finga (latinismo: si immagini o ipotizzi…), o si decida, che un Dio direttivo/sensato non esista, sarebbe l’unica possibile garanzia che detti sistemi di pensiero abbiano senso e che “la vida no sería un sueño”.

Se pensate che il mondo e la vita abbia senso senza un’intelligenza insita nelle cose, non avete che da dirlo, ma, ovviamente, direste una sciocchezza. Ci vuole, come minimo, una garanzia e pertanto c’è voluto un Garante. Tuttavia, il senso non pare venir meno senza l’ipoteca divina, come se Dio ci perdonasse di averlo abrogato, ma per credere questo ci vuole la fede (almeno quella di Lucifero) e si cadrebbe in un circolo tautologico o in una aporia. Invece i deterministi come Fabio, indifferentemente se più materialisti o più spiritualisti, credono fermamente (e non è possibile dimostrare che abbiano torto) proprio in un’intelligenza insita (absolutamente da noi) nelle cose.

Si è pensato allora a una doppia ipotesi che finora non ha trovato smentita ragionevole: che il senso del mondo e della vita può ben dipendere da come l’immagina ciascuno noi e che qualcosa ci impedisce di concordare in tale immaginazione per tanti quanti siamo. Anche a questa possibilità dapprima lusinghiera e poi deludente si è cercato di dare spiegazione.

Si è detto che l’essere umano è troppo egoista o autoreferenziale, chiuso e geloso dei suoi mezzi e appassionatamente all’inseguimento dei suoi scopi spesso imperscrutabili. Ma è’ così “di natura”, punto e basta, o se ne può discutere? Lo sapete bene, c’è il filosofo morale di turno che ha parlato di “volontà di potenza” dopo che un altro precedente aveva individuato a sua volta una Volontà metafisica che spinge i nostri atti; c’è il filosofo antico che ha immaginato la Hybris o la pleonexia, la mania del di più, come se l’essere umano fosse roso da mattino a sera della voglia di prevalere nell’essere e nell’avere (e nel sapere) per essere: tra gli altri, oggi si direbbe socialmente. Ciò comporta qualche difficoltà per una desiderabile pacificazione dell’esistenza e composizione degli egoismi.

Abbiamo notizia del Saggio orientale un po’ mistico che condanna la brama e vede l’antidoto all’insoddisfazione esistenziale nell’addestrarsi ad accettare il Mana senza sperare di giostrarlo, fondersi con il tutto, accettare i bisogni ineluttabili e meditare sulla vanità delle cose e sulla portata di dolore di ogni desiderio. Abbiamo l’Epicureo fautore del piacere temperato, di giusta misura, vai a sapere qual è, o lo Stoico che accetta il non- senso della vita ma coglie ancor meglio il non- senso di rinunciarvi mettendo senza ragione una posta sul non essere amletico. C’è lo scettico che non si esprime sul senso perché, invece di saper di non sapere come Socrate, decide che neanche questo si può sapere. Vabbè, basta la salute. C’è il filosofo strutturalista che ipotizza delle relazioni, tra le cose pensabili, più semplici e basilari (equiparabili ai postulati o assiomi dei sistemi logico/matematici) delle quali tutti i significati pensabili sono trasformazioni simboliche dovute al moltiplicarsi delle relazioni stesse in ragione delle cose di osservazione ed esperienza. Relazioni tanto complesse da essere incomponibili nella metafora e, purtroppo, anche in realtà. C’è stato Leopardi, lucidamente pessimista su passato, presente e futuro e c’è stato Manzoni che, come Pascal e Andreotti, scommette che alla fine tutto si aggiusta, basta crederci.

Potrei procedere ancora per molto nel repertorio, ma mi pare sia sufficiente per capire che o si decide che gli esseri umani sono, per come sono, l’effetto degli eventi trascorsi come loro Storia oggettiva o soggettiva di cose rispettivamente subite o fatte, oppure si decide che la Storia stessa sia effetto di come essi sono ab initio historiae ipsae. Allora andremo a sfruculiare nei reperti fisici, nei documenti storici di eventi e azioni tramandate, oppure andremo a sfruculiare nella mente, nell’anima o nelle motivazioni, di quel bipede poco peloso che chiamiamo essere umano.

È curioso, paradossale, ma fare le due ricerche consentaneamente è impossibile mentre, d’altra parte, è impossibile non immaginare che le due faccende si influenzino a vicenda: lo sviluppo collettivo temporale e il modo d’essere individuale atemporale nel segno di un minimo comun denominatore che chiamiamo Antropologia.

In diverse epoche della storiografia, anche nel Romanticismo, che è ancora il nostro approccio alla Storia, si è tentato di superare la difficoltà pensando di trovarvi l’esito delle intenzioni dei suoi diversi attori: niente di scientifico (certezza) ne è scaturito, solo molte “ucronie”, concetto da poco introdotto tra noi cinque non ricordo da chi. Sono le ore 2 e ormai di gran lunga non potrò venire a capo di questa stupida impresa entro il giorno ripromesso e indicato. Pazienza, riprenderò domani. Buonanotte a me, dato che voi già ronfate.

Che qualcosa succeda nel tempo, sia esso diacronico, con durata e freccia direzionale o sincronico, senza durata e senza freccia direzionale, oppure un mix come voleva Nietzsche, che inventò la teoria cervellotica dell’”ETERNO RITORNO”, e che tali eventi possano chiamarsi Storia, non possiamo non pensarlo, ma è difficile combinare i tre punti di vista. Lo è per un fatto clamoroso: non possiamo, se non provvisoriamente, prendere partito per una sincronia o una diacronia del pensiero, un flusso che ha i suoi punti arresto quando il senso si erge come una diga dal vorticoso fondo valle insensato dopo essere sgorgato da una fessura altrettanto insensata nelle rocce dell’alta valle. ln questa specie di “saldi” alla luce della coscienza, del soggettivo “saper d’essere” e del senso (identità compresa…), il pensiero si presenta più come sincronico che diacronico, però, nella sua ontologia, ammesso e non concesso che se ne possa parlare, è in sé dicotomico cronologicamente, cioè storicamente differito; infatti è nato, come capacità di immaginare non solo cose che esistono a portata dei sensi ma anche cose non percepite, almeno 30.000 anni prima dell’inizio nebuloso della Storia, pertanto, in tutto, almeno 40.000 anni fa, come retaggio di “Sapiens” e di un linguaggio, non più segnico ma già simbolico,  la cui origine ci sarà per sempre ignota. Ripeto per inciso ciò che ho già detto un ‘infinità di volte: con questo passaggio epocale, difficilmente collocabile diacronicamente, finisce l’evoluzione darwiniana e comincia quella culturale della specie umana.

Fabio ha ragione (vedi il primo esergo di inizio copiato da una sua mail) ad assegnare più realtà, concretezza e verità alla Storia diacronica, salvo che non solo ne conosciamo un’infima parte, ma quest’infima parte la conosciamo come narrazione sincronica nelle diverse epoche lungo il suo percorso, sia che si trattasse o si tratti di narrare res gestas, sia che si tratti di arguire cause ed effetti. C’è dell’altro, e anche questo è clamoroso: a livello di sapere scientifico o congetturale, vi troviamo solo quei particolari che vi abbiamo cercato e con cui poter dipingere un quadro più complesso che complessivo. Questo vale ancor più per gli storici di professione che per noi. Non serve essere epistemologi provetti per sapere che non esiste scienza non formalizzata, nella cui categoria rientra la scienza storiografica, senza ipotesi, così come non esiste scienza formalizzata senza assiomi, postulati (matematica, geometria) o altre convenzioni metalinguistiche (codici interpretativi, per esempio in musica). Quasi sempre, immergendoci in  un saggio storico, intuiamo, fin dal momento in cui abbiamo in mano il libro, l’intenzionalità ipotetica che presiede alle tesi dell’autore; ciò è dovuto al fatto che ogni narrazione, per dare il senso delle cose, è inserita in una narrazione più complessiva che infine coincide con i condizionamenti psicologici, ideologici e genericamente culturali dell’autore stesso e che noi vogliamo indovinare per prima cosa: è la famosa “chiave di lettura”, che ci deve accompagnare nel percorso diacronico se, assieme allo storico, vogliamo capirne qualcosa. Azzardo, abbastanza tranquillo per ciò che azzardo, che lo storico parte dall’antropologia per ritrovarsi, alla fine della sua ricerca, a un livello di antropologia immaginato vagamente superiore. Parte dalla sua sincronia in cui pensa di sapere di meno e torna alla sua sincronia in cui pensa di sapere di più.

Sarebbe questo il famoso insegnamento della Storia? Sarebbe questo. Si può tradurre, come dovrebbe essere per ogni vero insegnamento, in qualche competenza pratica che esca dalla reputazione professionale dello Storico o dalla reputazione dell’”erudito”? No, è partita persa.

Noi, che ci dilettiamo anche di letture storiche, sappiamo che Giulio Cesare prima trarre il dado, di prendere cioè la decisione su cui non ritornare, passato l’attuale rigagnolo chiamato Rubicone, impiegò alcuni giorni (Svetonio, V.d.C, 1, 32), anche se ignoriamo quanto ci abbia pensato mentre sostava sulla riva Nord del fiumiciattolo. Era l’inverno del 53 a.C. Sappiamo anche che Stalin, prima di prendere la decisione di fare il famoso appello alla Radio di Mosca sostituendo all’epiteto d’esordio “compagni” per quattro volte quello di cittadini, fratelli, sorelle, amici, impiegò lo stesso tempo, anche se ignoriamo quanto ci abbia pensato dopo che i Panzer tedeschi erano dilagati in Bielorussia e in Ucraina. Era l’estate del 1941. Forse che prima di prendere una decisione senza ritorno (per la metafora storica e per esempio, di rispettivamente trasformare la Campagna di Gallia in guerra civile e trasformare una guerra ideologica in una guerra patriottica), mentre siamo attanagliati dal dubbio come novelli Amleti, usciremmo dal rovello richiamando alla memoria Cesare o Stalin? E si ispiravano i due avventurieri, entrambi partiti da sinistra e arrivati a destra, a qualche altro beniamino della Storia, o erano rassegnati a tentare di cavarsela da soli? Vinsero, questo sì, almeno per un po’, infilando la loro spettabile serie (non ordinale) di mosse azzeccate e di errori.

Sulla base della nostra esperienza pare ci siano pochi dubbi su una tendenza a ripetere sia gli stessi errori, sia l’alternanza tra il piacere e l’investimento per arrivarci, sia una evidente ciclicità di tutti i cambiamenti neurovegetativi e neuroplastici. Una delle più istruttive manifestazioni psichiche di questa tendenza così universale da poter anche essere addebitata a cicli della natura, possiamo riscontrarla nella sindrome cosiddetta ciclotimica o maniaco-depressiva. Qualcosa di simile è stato notato, per esempio da G. B. Vico anche nei cosiddetti “corsi e ricorsi della Storia”.  Torniamo per un momento a ciò che dicevamo su un’alta probabilità che qualche fattore non ben individuato renda perduranti i motivi per cui non siamo pienamente soddisfatti di come ci vanno le cose: evidentemente, accanto a tale misterioso fattore dobbiamo ipotizzare l’esistenza di qualcosa che insiste nel far ripetere le cose nel mondo umano.

Sono dell’opinione che, sia codesto fattore di insoddisfazione, sia questo qualcosa che insiste possano essere accomunati come una motivazione che urge EXTIMA, quando con questo neologismo aggettivante si voglia significare qualcosa di intimo ed allo stesso tempo estraneo a noi.

A tale motivazione, per lo più inconscia, qualcuno ha dato il nome di “pulsione”, un concetto che, per il suo senso e per la sua fenomenologia, ha spesso trovato d’accordo Fabio e me, cosa non infrequente se non andiamo a scontrarci con le nostre diverse predilezioni lessicali e semiologiche. La pulsione, in francese pulsion, in inglese drive, in tedesco Trieb, al minimo della sua significanza vorrebbe dire spinta in non ben determinata direzione.

I significati diversi che sono stati costruiti intorno al concetto soprattutto in psicoanalisi e hanno debordato nella filosofia e nell’antropologia, fanno sì che la nozione appaia abbastanza mitica o mitologica, ma dobbiamo pur riconoscere che, quando l’essere umano non ha chiara contezza di qualche fenomeno né spiegazione per esso, è sempre ricorso al mito. Il carattere i ogni mito è l’insistenza.

Diciamolo a chiare lettere: l’universalità dei miti li fa passare dalla diacronia, privilegiata e vagheggiata dagli storici, alla sincronia privilegiata e vagheggiata dagli antropologi. Ma che genere di implicazioni avrebbe un flusso in senso contrario? Orbene, non siamo d’accordo sul fatto che prima vengono gli esseri umani e poi la Storia? Possiamo ricordare che anthropos significa in greco uomo (nel senso di quell’umanità generica che metterebbe le donne nell’ombra del gineceo?

Comunque sia, eccoci arrivati alle domande da un milione di dollari: c’è al di sotto, nel letto tenebroso e infido dei due fiumi (diacronici) della storia nostra collettiva e della storia nostra individuale un principio comune ed unico che obbliga gli Umani a ripetere? Non sarebbe tale principio eminentemente sincronico nel senso di persistente e sempre, almeno virtualmente, presente?

Sappiamo tutti che c’è stato uno psicoanalista, filosofo e antropologo tutt’insieme, Karl Jung, che ha risposto affermativamente forgiando la locuzione di “inconscio collettivo”. Una castroneria (di successo, si badi!) che, per non sembrare tale, ha costruito attorno a sé un bozzolo fatto di miti che il buon medico di Zurigo, carattere energico, si affannava ad “analizzare”.

Invece la pulsione non si può analizzare, rimane là come prima causa ipotetica di ciò che non pare andare nella direzione che vorremmo. È di per sé estranea a idee di bene e di male, ma ci accorgiamo di essa solo quando butta in maniera insoddisfacente. È seccante, ma di solito ci accorgiamo molto più facilmente e dettagliatamente della malattia che della salute.

Potrei anche concludere qui e osservare semplicemente che della Storia noi possiamo conoscere, capire e fare motivo ispiratore di pensieri promettenti, tanto quanto (poco) possiamo conoscere, capire e fare motivo ispiratore di pensieri promettenti della nostra memoria personale, individuale, soggettuale.

Non so se mi avete seguito fin qui, ho cercato di essere meno noioso possibile, ho evitato di ricorrere a nozioni troppo settoriali o specialistiche, ho evitato, mentre scrivevo, di pensare alle lezioni lacaniane e mai mi è venuto in mente di nominare Lacan, ma ora permettetemi di fornirvi un esempio di come viene un discorso sulla Storia quando si scelga più una chiave sincronica che quella diacronica ovvero annalistica.  Non ho altri esempi sottomano, è stato scritto nel 2005, ve lo accludo anche se in buona parte oggi lo scriverei in modo diverso e anche se di alcune affermazioni in esso contenute mi sono pentito perché troppo frettolose o difficilmente argomentabili a dovere, tanto da non poter essere confutate con altra argomentazione…

(Segue capitolo del libro: 112. STORIA )

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