da un sol dell’avvenire a un altro

“Un fantasma si aggira per l’Europa”. Con questa frase iniziale nel novembre del 1947 Marx pose mano al suo Manifesto dei Comunisti. Effettivamente c’era in giro un popolo che si pensava di comunisti, ma molto meno numeroso di quanto Marx voleva far sembrare, in linea peraltro con la tattica abituale di Lenin sessant’anni dopo, di far sembrare i bolscevichi più numerosi di quanto lo fossero. Sappiamo come andò a finire: per quanto riguarda Marx ci fu subito il ’48, per antonomasia il fallimento delle rivoluzioni, per quanto riguarda Lenin ci fu Stalin. Ciò nondimeno a noi, che comunisti non siamo (almeno fintanto che almeno uno che dica di esserlo non lo sia davvero) non spiacerebbe che la lettura di quel Manifesto entrasse nel programma di storia per le scuole medie; non certo per trarne deduzioni educative dirette, piuttosto per trarne motivi di critica e attinenza con il Congresso di Livorno del 1921.

Dopo un secolo, siamo nel 2021, un altro fantasma forse si aggira per l’Europa; c’è in giro un popolo che non sappiamo quanto numeroso e che sommariamente potrebbe definirsi freudiano, da immaginare come un insieme sociale o una categoria antropo-culturale. Con le sue sottocategorie composte di psicanalisti lacaniani, psicanalisti non lacaniani, psicanalisti che non sanno di essere lacaniani oppure che non vogliono esserlo, di soggetti psicanalizzati e perciò psicanalisti virtuali, di psicanalizzanti, di filosofi folgorati sulla via di Damasco, di intellettuali arruolati o semplicemente funzionali nella dialettica freudiana di prassi e teoria, transfert e resistenza. Talvolta personalità della cultura intente per tutta la vita a sorpassare a destra o a sinistra altre personalità della psicanalisi.

E’ un popolo che tutto vuole fuorché fare una rivoluzione. Se c’è una consapevolezza che lo contraddistingue e lo unifica, è la consapevolezza che i veri cambiamenti nella Storia, quelli che possono dare origine all’onda lunga delle civilizzazioni, avvengono in un punto nel corpo dell’umanità per via molecolare, non molare. Prendendola da un altro punto di vista, il cambiamento avviene sì nel soggetto, ma come significante uno-tutto-solo, che è come dire, a rovescio, non-tutto.

Ma c’è per caso qualche ideologia che possa rivelarsi attiva nel sociale implicata in questa consapevolezza che fa da minimo comune denominatore? Ce lo chiediamo perché un’ideologia, cioè il riversamento strumentale di qualcosa del Reale e dell’Immaginario nel Simbolico, non manca mai. Nei suoi esordi un’ideologia della psicanalisi poteva coincidere per esempio con l’assunto dei tardi saggi freudiani “L’avvenire di un’illusione”, “Il disagio della civiltà” o “psicologia delle masse e analisi dell’io”. Corrispondeva in fondo con ciò che poi Lacan chiamò “Il rovescio della psicoanalisi” ovvero lo spirito dei tempi da intendere come discorso del Padrone sincronico, dialettica politica compresa, rispetto al quale il discorso di Freud sul Reale dell’inconscio può restare laterale senza confliggere più che tanto. Ma poi per la pressione di istanze diverse ma anche di un’etica dello psicanalista che andava prendendo forma specifica, qualcosa che può assomigliare a una ideologia si articolò in qualche misura come generico sospetto per un’ideologia borghese che privilegia l’oculatezza, l’apparire, l’avere e in generale l’oggettività  identitaria, fattori che confluiscono in metodica mistificazione avversa ad un essere soggettivo disposto al cambiamento. Di sicuro in questo processo agì come operatore negativo l’estrazione sociale della prima “utenza”, tanto che un fattore di universalismo si aggiunse a scanso di ogni particolarismo, in primis  di ceto e di nazione.

Che farà, in senso molecolare, questo popolo? Farà simbolicamente qualcosa di politico prima in sé che per sé? Sta di fatto che vive nell’epoca del capitalismo avanzato che ha la sua ideologia imperiale, di un impero che impone la sua lingua, l’inglese, e non possiamo sapere a che stadio del suo sviluppo si trovi. Certuni questo impero lo immaginano al tramonto, alla sua implosione, ma il tramonto di un impero non è mai intravvisto o previsto da chi ci vive, al massimo può essere divinizzato ( i Veneziani costruivano ancora ville-regge in terraferma quando Napoleone era già “cisalpino”). Certuni, per esempio noi, lo immaginano, fatta la metafora dell’Impero Romano, trascorrere dal III al IV secolo, diciamo un po’ prima del Concilio di Nicea.

Non c’è alcun dubbio sul fatto che il capitalismo abbia vinto tutte le sue battaglie rivoluzionarie tanto da farsene un’abitudine (“rivoluzione continua”, sorriderebbe amaro Trotzkj), ovvero la forma che gli ha consentito, gli consente e gli consentirà di assorbire ogni istanza molare di cambiamento molare. Che tutto  cambi affinché il Capitale continui a vivere, cioè a rendere. Non si vive malaccio in questo impero, specialmente nelle province, specialmente se si sa vivere in controtendenza per quanto riguarda i consumi, “l’uso dei piaceri”, faccenda permessa finché in qualche punto della struttura imperiale fatta di produzione- informazione-consumo non assuma l’aspetto di un virus o un germe autoimmunitario: il capitalismo avanzato ha una sua strana etica, libertaria entro i suoi confini, come illustra il filosofo Bazzanella in un bel libro intitolato appunto “Etica del tardocapitalismo”.

Il popolo freudiano è in quiete, sta elaborando il lutto per la caduta delle sue illusioni terapeutiche, per lo più rimane nei suoi punti soggetto impolitico, ma tutto può succedere quando, per qualche motivo, i significanti tornano a mettersi in moto; sono essi che hanno prodotto la Storia, che sia di gesta o di sussistenza. Ovviamente non siamo telepatici, eppure siamo certi che nella testa di J. A. Miller, primario profeta di Lacan, girino pensieri di questo tipo.

Purtroppo c’è un problema, che l’immaginario risenta dei contraccolpi simbolici e molti esseri umani abbiano a soffrirne. Ma, si sa, la vita è problematica e pericolosa. Così è successo sempre quando una civilizzazione ha bussato per sostituirne un’altra; anzi, il successo del tentativo è sempre dipeso dalla quantità di martyrs che uno establishment fa tra i testimonials rivoluzionari. Non solo. Abbiamo usato parole moderne, prendiamone ora di antiche: lo sfacciato parresiarca che voglia trasmettere la sua parousia come promessa di un altro senso della vita, di un altro modo di goderne magari  a breve o brevissimo termine, deve correre i suoi rischi ma tenere presente anche il monito di Paolo di Tarso nella seconda lettera ai Tessalonicesi: prima che possa realizzarsi stabilmente la promessa messianica ci deve essere il contraccolpo dell’”apostata”, una molare reazione che ogni cambiamento vero, slegato per quanto possibile da sviluppo storicamente determinato, si impone di ritorno e fatalmente per qualche tempo.

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