33. UMWELT

L’umanesimo “tolemaico” nelle sue versioni più o meno tarde e illusorie, per esempio illuministe, è duro a morire. Pur ritirandosi sotto l’incalzare della fenomenologia strutturale e cognitiva, contro l’attacco di tutto questo neo-oggettivismo moderno che osserva la realtà non si sa più da quale incerto Empireo, può protestare a ragion veduta, ma oggi, credo, soprattutto freudiana, mentre non mancano anche nella nostra epoca Aristotelici e Cartesiani che, più o meno “larvati”, adorino una Dea Ragione sacrificando il realismo della nostra stranezza per paura dell’irrazionalismo.

 L’essere umano, fatalmente scisso, alienato/separato nella coscienza, è in grado di ingannare, illudere e blandire sé stesso dal posto dell’Altro, così che non si sappia chi è e chi non è, chi è vivo e chi è morto. È la sua grandezza e niente altro nella natura vi corrisponde. L’autoinganno, come d’altronde la valorizzazione dell’errore, non è l’eccezione, è la regola, incompatibile con il realismo oggettivo di Aristotele.

È diverso dall’animale che può solo mentire alla preda o al predatore nella finta o nella parata quando ciò sia dettato da istinti e imprinting nel chiuso del suo mondo etologico in cui non c’è evento ma solo interferenza nei bisogni omeostatici. Cos’altro è un animale se non un sottosistema omeostatico del Bios che sottostà ad entropia ma in cui la morte, finché c’è il sole e l’acqua, non esiste? Però, a differenza di noi, l’animale sa del “sapere del Reale”; ne sa come si dice che una pietanza sa di sale. È un sapere che è finché lui è e basta, anteriore ed irrelativo al principio di alienazione/separazione che fonda l’umano desiderio di sapere su delusioni che hanno nome di necessità.

 Il rapporto teso sul piano immaginario, talvolta teso alla follia, che teniamo con gli animali ha questa origine, un’invidia che spesso hanno interpretato i poeti.

 A ben guardare è da una prerogativa umana disgraziata che discende la nostra gloriosa e speciale attitudine ad uscire (a pensare di uscire) addirittura da noi stessi come da qualcosa di condizionato dalle parole ereditate che sono precisamente l’ambiente nostro ereditario, a trascendere la supposta chiusura del mondo e ad esporci alla sfida dell’apertura per sentirci heideggeriamente più ricchi di mondo del povero animale, sempre che non ci tocchi di sentirci inermi nella natura feroce.

 Vale allora il programma della psicoanalisi all’americana, avanti, in cammino verso “le magnifiche sorti e progressive” dell’autocoscienza, dell’Io che si allarga, che sa sempre di più negando il difetto strutturale, il buco di non senso incolmabile dal sapere, nel mondo simbolico in cui vige l’illusione, il disagio, l’incertezza e la morte, ritualizzata questa come errore del medico e pensoso esorcismo di sé stessa.

 Naturalmente è un bluff, in verità nessuno ha voglia di sfidare veramente i veri dei, se esistono, oppure la vera natura, se esiste. A ciò che spiega tutto si ricorre solo quando bisogna calmare i nervi e non si capisce più niente. Si finisce sempre per immaginare qualche noumeno (divino, no?) come ciò che può garantire che, al limite, la ragione abbia infine astuzia, serva a qualcosa; come minimo ad addomesticare l’inconscio quanto basta perché qualche umanesimo non ne abbia turbamento.

 Invece non c’è noumeno, non c’è, nel Reale, per la giustificazione dei sembianti, un sapere sul sapere. Non c’è neanche il Grande Architetto dell’Universo immaginato dai Massoni.

 E’ comunissimo l’uscire dalla realtà del mondo, da una supposta matrice “naturale, addirittura abrogarla in qualche inedito programma trascendentale o trascendente, ma non si può abrogare né il Reale insensato con la sua portata di angoscia e godimento, né, se non si vuole incorrere in tragedie dello spirito, conviene abrogare l’Altro del soggetto magari per punirlo della sua inconsistenza e sostituirlo con un suo ulteriore Altro: religioso, scientifico, magico, ideologico, tecnologico e quant’altro, purché sappia nutrirci di significati tanto “umanistici” quanto immaginari.

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