30. CANGIANTE

Nel merito la topologia di Lacan si potrebbe trascurare, in una dottrina non tutto è necessario per fornire alla sua verità fatta di parole la migliore veste tessuta di parole, ma non si può elidere, pena la perdita di consistenza propria dell’Immaginario che si riflette concretamente in uno stile (di Lacan stesso). Non c’è il discorso essenziale, senza stile; non c’è, non che in poesia, neanche in matematica l’assenza assoluta di qualità attinenti il paradigma e il sintagma. Si pensa come pare e soprattutto come piace, oltreché, ove richiesto, come si deve per insegnare con efficacia.

 La topologia, via via sempre più presente nel suo insegnamento, è sostanzialmente inaugurata da un “oggetto” ancora semplice, descrivibile, il nastro di Moebius, l’anello di fettuccia chiuso con una torsione di 180°, continua con il perdurante interesse per il toro, la ciambella che buca uno spazio da essa organizzato, e finisce con la dinamica dei nodi borromei assicurati, che invece sono solo scrivibili e non fanno effetto di metafora neanche a volerlo. Non che per questo non debbano essere interpretati nella loro cifra. Comunque la topologia serve a Lacan per prendere le distanze dall’Immaginario più comune al quale la geometria, nello sforzo di dare essenza al punto, è ben più esposta.

 Fino ai primi anni ’70 si serve di quel paradigma spaziale come di un esperimento mentale, poi comincia a prendere in mano delle cordicelle, con le quali non si fa niente se non si dispone di un po’ di tempo. Questione questa, del tempo, da lasciare sospesa, dovendo intanto riconoscere che è lo spazio, non il tempo, lo sfondo metaforico del pensiero esplicativo (pertanto ontologico, al limite) di Lacan. Non è lo stesso per Heidegger, malgrado il titolo della sua opera principale?

 Ogni esperimento mentale comporta l’unità oggettuale, un significato immaginato come separato/inserito in una sezione operativa che inquadra una sua temporalità a sua volta immaginata e pertanto spaziale, avulsa dal tempo soggettivo; ma nel caso del nastro di Moebius si gira intorno, è il caso di dirlo, ai concetti di esclusione interna, di extimità, di struttura non-tutta che rispondono all’assillo di Lacan, abbastanza simile a una excusatio non petita rivolta allo strutturalismo più ortodosso che, a differenza della psicanalisi, ritiene di non dover considerare né il soggetto né il suo tempo di attenzione quando si prendono in considerazione rapporti di struttura. E’ dopotutto lo stesso errore di pensare che in natura esistano sistemi chiusi (e pertanto, per esempio se si insegue la certezza, che la misurazione possa extraniarsi dal misurando, presentarsi supplementare). O che il Fallo abbia significato in sé, che un significante abbia un significato, che le posizioni dell’uomo e della donna siano in sé delineate, che lo siano le posizioni del servo e del padrone…

 E’ forse il caso di annotare che il concetto lacaniano di non-tutto è quella cosuccia da niente senza la quale però non potrebbe essere pensato l’essere, cioè la differance derridiana e l’evento di Badiou, due maniere di dire tutto quello che c’è in attesa del suo senso. Oppure che può introdurci al realismo antiplatonico, per esempio, di Žižek, per cui non c’è altro universale che il particolare.

 Il non-tutto è, pur non potendo esistere, se non paradossalmente, a fronte del tutto: corrisponde a quel Yad’lun, il Cèdl’uno che leggiamo nel XIX Seminario e nella traduzione che ne fa Di Ciaccia. Ma è come il punto di Euclide e il Tutto della metafisica di ogni tempo, cose senza qualità, inconfrontabili, che pertanto possono essere ma non esistere. Nell’”Uno tutto solo”, condizione logica di esistenza di un “insieme vuoto”, non c’è niente di più di quanto ci sia in detto insieme; anche Heidegger dovrebbe ammettere che es gibt nichts. E’ l’indeterminato, impossibile significante senza struttura e impossibile sostanza pura, Dio non ancora creatore.

 Ogni nostra idea, concetto, rappresentazione mentale, in definitiva ogni parola, non significa altro che non-tutte le altre: il senso a prevalere sul significato.

 L’ente è relazionale, per farcene un’idea dobbiamo confrontarlo con altri enti, o è misurabile, cioè nuovamente confrontabile con qualche unità di misura convenzionale: in entrambi i casi si estromette il tempo dell’essere perché resti il Dasein, ma il soggetto che fa l’operazione è il terzo, l’essere insaputo, meglio, il parlessere del Soggetto in cui può apparire “di tutto”, Dio, l’Altro, un Tutto, il Caos, il possibile e l’impossibile… Tutte le faccende di cui, secondo Protagora, siamo la sola misura, ma allora non ci sarebbe la disputa su di esse che invece c’è. Ciò deriva dal fatto che sono anche tutte categorie immaginarie intercambiabili nell’interpretazione appena si intravveda il loro isomorfismo di significanti, per esempio nei sogni quando una cosa (un significato) si deforma come l’orologio di Dalì oppure si trasforma in qualcos’altro senza soluzione di continuità e senza apparentemente far conto dell’affetto emotivo (il senso) che può esserle associato.

 Insomma, la realtà, in cui troviamo finché si può il nostro posto, sottostà a identità discontinue e stabili nel tempo, essenze o sostanze, direbbero gli antichi filosofi (impossibili, aggiungiamo noi), mentre il cambiamento può essere interpretato solo nelle forme e in continuo. Il che è tipico della topologia con tutte le difficoltà della matematica a rendere ragione delle trasformazioni qualitative e della geometria a rendere ragione del suo stesso quinto postulato.

 Poiché lo scopo della psicanalisi è il cambiamento delle fissità immaginarie, Lacan consiglia agli psicanalisti di ricorrere alla topologia per orientare le interpretazioni così da minimizzare il pericolo di rispondere a quelle fissità sintomatiche con altre fissità ovvero con ulteriori significati che proteggano ed isolino in una sorta di immunizzazione ciò che di reale, di non relazionale, in altre parole di godimento, c’è in un sintomo. Con il rischio cioè di perdere di vista l’unica sua vera essenza.

 Nel servirci della topologia ci può essere un particolare “saperci fare”, come da bambini si faceva con la plastilina in cui si poteva cambiare la forma senza aggiungere né togliere nulla.

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