26. BASTA IL TITOLO

 I libri che rientrano nella categoria dei “classici” possono incorrere in un infortunio, quello di doverci tenere a debita distanza, di non dover essere più letti affinché possa essere riservato loro un valore sacrale del tutto equivoco. Perché ad essere letti apparirebbero paurosamente invecchiati e non più in grado di aiutarci a districare le contraddizioni nel nostro tentativo di rendere ragione del mondo in quanto attuale. Questo infortunio è toccato al famoso saggio di Walter Benjamin “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica” che impernia l’argomentazione sul concetto di “aura”, quel valore aggiunto vagamente spirituale che spetterebbe all’opera d’arte solo nella sua unicità ed autenticità, da intendere come ieratica presenza che si impone sullo spettatore portandolo addirittura all’esperienza del numinoso nella charis, nella grazia di un sapere altro.

 L’aura induce nello spettatore quel raccoglimento necessario per poter entrare in sintonia con il fenomeno artistico e goderne appieno, mentre “alla più perfetta riproduzione mancherà sempre una cosa: l’hic et nunc dell’opera d’arte, l’unicità della sua esistenza nel luogo dove essa si trova e che, per il tempo della sua vita, subisce il travaglio della storia”.

 Colpisce che il concetto sia allo stesso tempo materialistico, che riguardi una presenza molecolare, ed animistico, magico per stessa indicazione dell’Autore.

 Un quid destinato, secondo l’Autore, a soccombere nell’impatto con la modernità, nelle tecnologie che rendono disponibili orizzontalmente per la fruizione estetica di massa tutte le qualità di un fatto artistico riprodotto, esclusa proprio l’aura.

 Si perderebbe perciò nella modernità ogni valore dell’Arte a cominciare dai turbamenti dell’anima per arrivare al valore sociale, lo spiraglio umanistico da tenere aperto nei processi reificanti delle “civilizzazioni”? Benjamin, che compone e rielabora il saggio in anni non felici della sua vita, sembra non avere dubbi: la civiltà di massa, che egli ovviamente aborre soprattutto nella versione dei totalitarismi fascista e nazional-socialista, riduce l’Arte, mediata dalla tecnologia, a semplice strumento di dominio politico.

 Rimane assolutamente puntuale, a questo riguardo, la notazione di Benjamin sulla estetizzazione della politica nei regimi fascisti e sulla politicizzazione dell’Arte in quelli comunisti.

 L’argomentazione si svolge in un crescendo che condanna la fotografia, la fonografia ma soprattutto e finalmente il cinema ad essere un trastullo voyeuristico per masse beote, una distrazione dalla verità, se si esclude un ritorno di dignità allegorico-didascalica per il cinema sovietico di un Einsenstein.

 Il mezzo tecnologico predisposto per riprodurre qualsiasi realtà, non solamente quella artistica, stabilisce una tale distanza tra l’oggetto e lo spettatore che il significato vitale in quanto autentico dell’evento estetico risulterebbe annichilito in favore di un significato ideologico funzionale al sistema della produzione/consumo e più in generale del dominio che si gloria delle meraviglie tecnologiche: viene anticipato il discorso di Mc Luhan sul mezzo che è il vero messaggio.

 Nel cinema l’apparecchio, il dispositivo di segmentazione del lavoro, le luci, il focus e il montaggio ucciderebbero il momento creativo creando una ingannevole realtà per un pubblico che ha caro di essere ingannato. Osservo a questo punto che qualcosa di simile si potrebbe dire per l’arte barocca e che proprio sul dramma barocco verteva la tesi di laurea di Benjamin.

 La cultura di massa ha nel cinema il genere d’arte che le è proprio e in cui verrebbe a mancare del tutto quella qualità che Benjamin chiama kultisch, cultuale, che invece è presente nel teatro dalle origini fino a Brecht e che scuoterebbe un nostro immaginario consolidato.

 Eppure, non è proprio la definizione di cult movie, film di culto, che oggi designa un’opera cinematografica che sia entrata significativamente, tutt’altro che come puro e momentaneo divertissement, nell’anima collettiva? Questo forse non vuol dire niente, ma sta di fatto che mai ho goduto dell’opera lirica come nei film “Carmen” di Rosi, “Il flauto magico” di Bergman o “Don Giovanni” di Losey.

 L’argomentazione nel saggio è ben più raffinata di quanto può apparire in queste righe, tuttavia non ce la fa ad uscire dal significato del lamento di un grande intellettuale deluso e dalla giustificazione che gli viene dai risvolti esistenziali dovuti all’epoca. E’ del tutto evidente che il concetto di aura cultuale non può esaurire il valore dell’Arte di tutti i tempi e che se questa serve a disvelare qualche verità lo può fare solo mediatamente nella cultura in cui nasce e poi vive, se vive.

 La mediazione è sempre di tipo tecnico, anche se poi spetta all’artista non far pesare il momento tecnico laddove distrarrebbe dall’espressione, ma è anche sempre inevitabile una dislocazione spazio-temporale, la cosiddetta giusta distanza come più adatta a consentire quel godimento estetico riflessivo che apre ad ognuno l’accesso a territori elitari rispetto un’acculturazione di massa.

 In tutti i casi l’opera d’arte è sempre un’immagine e una rappresentazione che si fa strada nella coscienza, non la sostanza di un oggetto o indagabile in un oggetto.

 Per Benjamin l’autenticità è la verità e ciò si può ben comprendere come un’esigenza nell’epoca della inautenticità politica, del “come se” diventato nel fascismo garanzia dei legami sociali nell’epoca della più sfacciata mistificazione ideologica, ma resta il fatto che la verità nasce nel suo contesto soggettivo come rovescio del dubbio e vale sempre l’insegnamento di Hegel per cui la verità di una cosa non coincide con la cosa stessa.

 Non c’è hic et nunc che tenga, se non come romantico compiacimento estatico; in verità l’opera ci smuove viceversa da un presente concreto, dobbiamo rincorrerla là dove significa, sempre un po’ più avanti di noi sia che ci faccia cenno, come un nume di Rudolf Otto, da un tempo che non c’è oppure da una distanza da proscenio che ci sfida a indagarne le forme.

 Mai è mancata e mai mancherà una residua eterna magia dell’Arte che consiste nell’anticipare sempre con i suoi mezzi il discorso umano e a preservarne la significatività inespressa perché essa è ciò che meglio corrisponde alla vita umana intesa nella maniera più degna, cioè come possibilità d’essere. Ma è proprio questo aspetto residuale a far sì che l’opera d’arte non coincida con il feticcio adottato ritualmente, cioè presente socialmente e materialmente, per rappresentare il nucleo significante ma inespresso di qualche mito. Un aspetto residuale, un certo non so che di preservabile ben al di là della presenza, per essere fruito nella coscienza in cerca di parole che lo dicano. Funzione questa, per così dire, demiurgica, ma che poco c’entra con una presenza corporea.

 Semmai, nella modernità, è proprio dell’aura, in quanto attributo speciale ed eventuale dell’Arte legato alla presenza, il più triste destino, quello del ritorno alla funzione antica, originaria (ma , ripeto, non esaustiva) del feticcio, quando può diventare un alibi per la pigrizia intellettuale, per il conformismo o, dio ci salvi, quando può essere confusa con il valore di scambio, con il prezzo, come pare avvenga nel nostro tardo capitalismo in cui si completa il percorso del collezionismo da elitario a popolare. Ma come d’altra parte avveniva nel Medioevo cristiano quando una reliquia, un pezzetto di materia conservato nella cattedrale, giustificava e promuoveva il mercato antistante.

 Comunque l’aura pare oggi destinata, se ci permettiamo di guardare più in là di quanto è scritto nel saggio, a ridursi al valore di un segno distintivo sociale, status symbol, per un valore antiquario (Benjamin veniva da una famiglia di antiquari berlinesi) o per l’estasi turistica tardo-romantica o decadente del grand tour. Se penso a certe esposizioni trovo preferibile qualche riproduzione.

 Spero non sia inteso come un gratuito deprezzamento nei confronti di un autore dalla scrittura alta, un’”uomo contro” e illuminato utopista a costo della vita, se azzardo che proprio questo libro reputato classico rimane tale in quanto per noi proprio avvolto in un’”aura cultuale”. Ne vediamo compiaciuti la costa sottile nello scaffale della biblioteca, ma difficilmente lo estraiamo per sfogliarlo.

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