7. CAUSE PERSE

 Finora, malgrado le accanite ricerche sulle cause dell’autismo e della sindrome di Asperger, cassate tante più o meno fantasiose ipotesi, ultima quella “no vax”, l’eziologia di queste precoci e perduranti anomalie comportamentali resta misteriosa.

 Si sa però che la loro incidenza nella popolazione aumenta costantemente da circa cinquant’anni e che l’incremento negli ultimi decenni è, senza che la parola sia esagerata, spaventoso. Tuttavia lo è di più nelle nazioni più dotate di servizi diagnostici per l’infanzia, per cui i numeri dell’incremento andrebbero corretti in relazione ai numeri delle osservazioni. Gli psicologi devono lavorare, no?…

 La clinica dell’autismo segue tradizionalmente due impostazioni, quella che vuole individuare cause fisiochimiche cerebrali estendibili eventualmente alla genetica ereditaria e quella che vuole individuare cause psichiche e ambientali riferite al primo insorgere della sindrome in età infantile. In altre parole nel primo caso si indaga il cervello e nel secondo la mente. Come detto né l’uno né l’altro filone di ricerca si è dimostrato in grado di portare certezze da cui possano derivare successi terapeutici e, come sempre accade, in conseguenza delle aporie cliniche la stessa diagnostica si è sfilacciata in mille distinguo.

 Tuttavia è successa una cosa strana, che la ricerca di impostazione psicogena soprattutto nel suo risvolto psicanalitico è stata e ancora si trova ostacolata dall’esterno, in certi casi addirittura dalla politica, dopo essere stata demonizzata a livello di pubblica opinione soprattutto negli Usa. Cosa strana per modo di dire, dato che faccende simili si ripresentano da ancor prima che Galilei avesse inaugurato la scienza moderna con le difficoltà extra scientifiche che sappiamo: ne aveva già fatto tragicamente le spese Giordano Bruno, ne soffrì il pensiero di Darwin; e Freud dovette compiacersi del fatto che bruciassero i suoi testi invece di lui. I “brandelli di Reale” che vengono a proporsi come verità spesso urtano la sensibilità di qualcuno precludendo per qualche tempo un dibattito sereno in merito.

 Negli USA degli anni ’60 successe che uno psicanalista ebreo della diaspora austriaca molto concentrato sull’età evolutiva, Bruno Bettelheim, uomo geniale (e, come tutti i geni con qualche difetto di carattere), avendo osservato alcune costanze psico-nosologiche nelle madri dei bambini autistici, formulò per l’autismo una teoria clinica prima solo eziologica e poi anche terapeutica incentrate entrambe su fattori ambientali.

 In breve, addebitò l’autismo al fatto che una madre, poco propensa ad affettuosità meno controllate e intellettualizzate, poco disposta a infantilizzarsi per entrare in sintonia empatica con il bambino e dialogare giocosamente sul piano prelogico dei suoi bisogni e delle sue enigmatiche domande di gratificazione, gli rispondesse con una sorta di tecnica precisione, tanto da provocare un vuoto libidico, uno stato di sfiducia nell’opportunità di rapportarsi con lei, suo primordiale oggetto sensuale, ovvero che “non gli valga la pena di insistere nei tentativi di approccio”.

 Da lacaniani, vedremmo allora nella madre dell’autistico un non “saperci fare” erotico, in fondo ciò che in una donna, genericamente “erotomane”, non può essere che una inibizione ad essere spontanea. Un saperci fare non è il sapere cosa va fatto: se uno o una ci sa fare, se ne infischia dei manuali orientandosi piuttosto al “non-tutto”.

 Pur riconoscendo che “ad oggi l’umanità non ha trovato un modo migliore di allevare i suoi piccoli che in seno alla famiglia”, Bettelheim fondò un istituto orto-pedagogico alternativo alla continuazione delle cure materne quando si riscontrassero evidenti segnali di autismo.

 Apriti cielo! Le potenti madri americane si sentirono tutte chiamate in causa e, se non direttamente accusate, virtualmente passibili di qualche giudizio.

 Non contribuì a renderlo più simpatico il fatto di pubblicare uno studio sul comportamento regressivo degli internati nei campi nazisti che sostituivano alla solidarietà comportamenti egoistici e volgevano l’aggressività e l’odio verso i compagni di prigionia invece che verso i loro aguzzini, comportandosi, diremmo noi, come i polli in mano a Renzo Tramaglino. La bellicosa yiddish mutti a questo punto si unì al coro delle altre donne.

 Poi non lo aiutò il fatto di essersi sempre dichiarato ateo e soprattutto un libello infamante pubblicato dal fratello ebreo di un adolescente che si era suicidato dopo essere stato ospite della struttura terapeutica, libello che tra una e l’altra malignità rilevava qualche imprecisione nel curriculum dello studioso.

 Si scatenò una campagna denigratoria perfettamente funzionale alla resistenza della psicologia comportamentale e cognitivista americana verso la psicanalisi freudiana di importazione europea, non direttiva questa e non esclusivamente finalizzata alla normalizzazione sociale del paziente.

 Una campagna denigratoria che ha trovato e trova sponde anche in Europa.

 Sarebbe niente se questo non avesse scoraggiato ogni ricerca di tipo psicogenetico sull’autismo, sminuendo per esempio l’importanza del pregevole lavoro della Frances Tustin che si ispira alle nozioni psicanalitiche della Klein.

 Quattro anni fa, febbraio 2012, il giornale “Il Sole 24 Ore” pubblicò l’articolo di un autorevole storico italiano della medicina, trasudante livore nei toni e chiaramente rivolto a screditare la psicanalisi, a seguito dell’episodio giudiziario avvenuto in Francia di una radio privata condannata per aver manipolato un’intervista a degli psicanalisti con argomento la cura dell’autismo. Si può trovare in “rete” nell’archivio del giornale ed è un bellissimo esempio di come funzioni, con quanta serenità ed eticità, da circa 100 anni e ancora oggi il pregiudizio contro la psicanalisi, soprattutto se lo mettiamo a confronto con la fin troppo pacata risposta di Antonio Di Ciaccia, intervistato successivamente per Radio Tre dalla giornalista Loredana Lipperini.

 L’avversione alla psicanalisi, frutto della resistenza collettiva, è veramente sincronica, appartiene alla struttura. L’unica consolazione è che oggi prende di mira specialmente la parte lacaniana. Buon segno.

 Andiamo al merito scientifico: è stato dimostrato con qualche fatica ma ormai senza ombra di dubbio che la madre dell’autistico è statisticamente individuabile per sue caratteristiche su una scala di probabilità: non appartiene agli strati sociali bassi della popolazione, è scolarizzata, efficiente e produttiva accetta di adattarsi ai ritmi imposti da lavoro e cura del figlio spesso unico e maschio, poco emotiva, controlla l’ansia ed è tecnicamente sollecita nelle cure del figlio dichiarando di farlo in ordine ad una sua perfetta riuscita sociale.

 Con più facilità ancora si può correlare statisticamente l’incidenza dell’autismo con l’incidenza dell’occupazione lavorativa femminile.

 Nessuno, neanche Bettelheim, ha mai pensato che la madre dell’autistico sia peggiore di un’altra madre “sufficientemente buona”, può essere addirittura “troppo” buona, si tratta semplicemente di osservare i casi di minore fluidità, di attrito in quell’“effetto montante di equivoci emotivi” che dovrebbe prendere piede nella relazione madre/ bambino e che per diversi aspetti è un corpo a corpo e una folie à deux prima di integrarsi nel senso della struttura da cui dipende. Non dimentichiamo che qualsiasi atto e qualsiasi vezzo della madre è per il bambino un enigma e viceversa, spesso “una enunciazione senza enunciato”, ma così forse deve essere, al riparo da scientismi direttivi psicopedagogici. Niente di diverso, nessun accorgimento pedagogico più lineare funziona meglio per umanizzare un bambino nel linguaggio come possibilità di interagire socialmente. “Una lingua è l’integrale degli equivoci incorsi nella sua storia”, dice Lacan, e ciò vale per una popolazione come per un individuo.

 Un bambino trova il suo posto nel mondo simbolico, ovvero sociale, per via di trials and errors sì, ma della madre o di chi primariamente lo accudisce, quanto del bambino! La madre non deve avere paura di sbagliare tempi, gesti e somministrazioni, perché comunque sbaglierà e sarà un bene se sbaglierà parlando, come si affanna a raccomandare Francoise Dolto. “Nell’amore de Lalingua” che è l’unico amore sempre ricambiato.

 Vi si adatterebbe (l’impossibile) precetto agostiniano: “Ama, e fai quello che vuoi. Se taci, taci per amore, se parli, parla per amore, se correggi, correggi per amore… Sia in te la radice dell’amore, e da questa radice non può arrivare se non del bene”. S. Agostino estende così la preminenza che S. Paolo nella Prima Epistola ai Corinzi attribuiva alla virtù della Carità su tutte le altre virtù che senza di essa non varrebbero nulla.

 Potremmo anche scendere più terra-terra, qualche volta ci vuole quello che non serve a niente, che so, il godimento di una canzoncina… Avete mai notato che qualunque parola una mamma rivolge all’infante sembra nel tono un po’ cantata? Il senso prima del significato.

 Tuttavia sarà anche bene che sappia di essere chiamata a dare al bambino risposte non precostituite, di lasciargli l’iniziativa anche se l’esito dovesse essere frustrante per entrambi.

 Voglio dire che per quanto riguarda l’autismo, c’è un errore da non fare, da non fare proprio, addirittura fatale in casi di (senz’altro incolpevole) sistematicità: anticipare i bisogni del figlio annichilendolo in quanto a possibilità di essere soggetto della domanda e del desiderio. Non bisogna togliergli la contingenza, il caso, né, soprattutto, l’”allenamento” alla mancanza.

 Chi è stato a contatto con bambini autistici avrà notato il loro ritrarsi con spavento di fronte a ogni nostra iniziativa nei loro confronti: è l’espressione sintomatica del terrore provato all’irruzione del Reale anticipato nell’intervento materno prima della disponibilità ad esso.

 Nel pensiero di Lacan si potrebbe dire che in questo caso qualche “lettera” materna, fonema nell’aria, tocco sulla superficie del corpo, simile al tocco del pennello che verga un ideogramma sulla carta di riso, è rimasta “lettera non-morta”: per così dire, una incombente macchia di Rorschach non standardizzata e insensata con cui l’immaginario continuerà a fare i conti. In quella lettera resta il rovescio del godimento, l’angoscia. Se il desiderio psicotico non distingue tra l’oggetto (i significati, le parvenze) e la Cosa, l’autistico distingue ma non sa scegliere e attivarsi.

 La strutturazione verbale e proto-sociale di un bambino a contatto dialogico con la madre è ben sperimentata nella prassi umana, quasi a prova di bomba, purché alla domanda naturalmente asimmetrica, che viene più dalla parte del bambino, sia concesso il suo momento: è invertendo l’ordine temporale che un effetto montante può trasformarsi in un crollo.

 Naturalmente quanto tutto ciò possa riferirsi a un obbligato compromesso con le necessità lavorative di una madre può essere un problema sociologico ancor prima che psicologico.

Lascia un commento