38. COMME IL FAUT

Non può sfuggire una incongruenza nella psicanalisi se consideriamo il coraggio che si richiede di andare fino in fondo, di non arretrare davanti all’ignominia, di sospendere la pietas da parte dell’analista e dell’analizzante verso quel corpo che parla o tace o bofonchia sul divano, e poi paragoniamo tutto ciò con il cosiddetto set della faccenda, il suo svolgersi in un quadro quasi teatrale, di sicuro convenzionale: un quieto studio professionale in cui vige un patto economico e una esperienza esistenziale asimmetrica.

 Vi si coniuga il rigore tragico di un Robespierre e la routinaria prosa borghese: onnipotenza e castrazione, senso e insensatezza vi si rincorrono come in un taijtu o un ouroboros.

 Una analisi è un percorso rivoluzionario all’insegna del progresso continuamente catastrofico (e non dello sviluppo direzionale e direttivo) che si svolge dalla parte dell’analizzante e non può prescindere da due specie di terrore, quello per un sapere che non sa e forse sarebbe meglio al momento non sapere e quello del momento del taglio in cui deve attraversare il suo fantasma.

 Non manca il corrispettivo dalla parte dell’analista, come terrore per un sapere che potrebbe sapere ma che, anche nel suo caso, forse sarebbe meglio non sapere, potendosi rivelare quella zavorra che fa naufragare l’analisi.

 Si sa che buona educazione e rivoluzione non vanno d’accordo, ma si tratta proprio di sperimentare il limite della finzione e quello della verità, di mettere a confronto e far reagire il “Grande altro” sociale e “ il tutt’Altro”, cioè di mettere a confronto il senso reificato nei significati socialmente garantiti in ordine a pacificare e lubrificare i legami sociali (il senso comune) e il senso precario, etico perché non garantito, in cui ci muoviamo a tentoni tra i significanti, atti o parole che siano, mossi da un desiderio tanto più impresentabile quanto più autentico.

 L’atto di stendersi sul divano è l’atto di spogliarsi del bon ton per imparare a vergognarsi della vergogna di venirne meno, ma non si può fare l’analista senza un po’ di vergogna di farlo.

 Parliamone. La macchina al cui governo si trova l’analista è una macchina semplice così descrivibile: per ragioni che qui tralasciamo lasciando libero campo ai divertimenti “antiedipici” deleuziani, i godimenti infantili divengono non più plausibili quando già si è approntato nel soggetto la loro trasformazione di supplenza nel linguaggio simbolico: si tratta di ritrovarli con il metodo della libera associazione attraverso l’interpretazione delle resistenze poste in atto dall’inconscio (supplenza di parole ineffabili ed ineffatte) nel transfert, che riproduce nel nevrotico (in tutti) il momento di riscatto come sessuazione a fronte della soggezione infantile anaclitica.

 Nessuna macchina si sottrae all’attrito, nel caso dell’analisi esso è dato dalla arbitrarietà dell’interpretazione che ne fa irrisoriamente existere sempre una e solo una, tra infinite nella quantità e indefinite nella qualità.

 Facciamo l’esempio principe dell’interpretazione dei sogni come “via regia per l’inconscio”. Dobbiamo partire da due postulati con tutta evidenza necessari quando si discorre di psicanalisi freudiana: il soggetto è tale per avere relazione con l’inconscio e per l’inconscio non c’è nulla che non abbia significato. L’analizzante riferisce un sogno che si incentra su una situazione bizzarra e procede a commentarlo attenendosi alla regola fondamentale della libera associazione, in cui l’asse paradigmatico è privilegiato rispetto quello della sintassi: ci sarà senz’altro un significante, per lo più una parola, che l’analista desidererà mettere in evidenza e sarebbe semplicemente cattivo analista se non procedesse in questo senso, ma mai come in questi frangenti, tra desideri e resistenze virtualmente incrociate, si manifesta la miseria della sua posizione che deve assecondare la ripugnanza dell’inconscio per il caso insensato ed imporre proprio il caso insensato, ad esso la sua stessa finzione di quando riscrive il sogno sotto dettatura dell’Io resistente, come solo ciò che può stanarlo a livello di godimento traumatico o discorso sintomatico. Ma perché quella parola e non la successiva?

 

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