28. POSSIBILE E DUE

 Quando Cacciari individua il pensiero negativo come metodo di pensiero che solo può corrispondere alla complessità del mondo attuale, conferma la ragione dialettica come denominatore della filosofia occidentale in generale e di quella filosofia moderna che, inaugurata dal pensiero dialettico/riflessivo di Hegel, passa per Nietzsche (perdendo ogni “astuzia” nella “fedeltà alla terra”) e diventa di volta in volta ermeneutica, decostruzionismo, esistenzialismo, pensiero debole. Questa incertezza sul metodo ha a che fare con l’impossibilità per il moderno pensiero critico di liberarsi dal pensiero dialettico in quanto opposto a quello magico.

 Tolta di mezzo la sintesi come auspicio mentale e pertanto, per esempio, la credibilità salvifica del materialismo dialettico nel suo aspetto teleologico, la contraddizione va vissuta come tale nell’estetica e nell’etica anche senza proclami nichilisti.

 Di più, il ritorno ai filosofi presocratici, in sostanza alle disgiunzioni di Parmenide ed Eraclito, ne conferma l’allure come mediocre sintomo della filosofia moderna. Esemplare è il perdurante sconcerto di Emanuele Severino sempre sul punto di accorgersi che a negare la metafisica la si evoca e che ogni fenomenologia la irrobustisce a scapito della praksis.

 Si tratta di retroazione della complessità dei saperi che riproduce come una nemesi il dubbio metodico cartesiano, nel quale, in assenza di certezza e verità, soggetto e oggetto possono coincidere, sia pure come virtualità d’essere.

 Caduto il fronte del sapere ontologico tra res cogitans e res extensa, la glandula pinealis è sostituita dall’Immaginario che si potrà proporre come a priori trascendentale ma solo a patto di non appoggiarvisi per qualche asserzione. E’ la negazione, la falsificazione popperiana il vomere che dissoda il campo della verità per raccolti quasi sempre deludenti sul versante soggettivo (del senso).

 Malinconicamente l’indifferenziato caotico sostituisce l’Eden come mito dell’origine, uno stato di natura da immaginare per esempio, con Freud, nel bambino ancora indenne da quel linguaggio che comporta alienazione /separazione: un destino, non un mitico Bios ordinato negli istinti.

 Lacan non trova nel “cogito”, del quale illustra la debolezza logica, un ulteriore ubi consistam, una forma decisiva, punto d’appoggio galileiano (e kantiano) per sostenere il mondo, ma lo trova nel godimento, effetto di Reale, in quanto tale un’entità un po’ mitica che c’è solo quando c’è, estranea, per esempio, alla costanza dell’energia per quanto ci riguarda. Ma anche alla quadratura della logica. Nello stesso tempo intende fuggire dalla chiusura idealistica in quanto ideocentrica e, dopotutto, non meno sbrigativa sul piano filosofico nel suo monismo finale di quanto lo sia il realismo ingenuo nel suo dualismo immaginario e illusorio fatto di Io e Mondo, due cose di cui veramente sappiamo poco. Il monismo delle filosofie occidentali sta nel misconoscimento della natura “entropica”, per così dire, dell’Uno a fronte dell’Indefinito destinato a rimanere tale malgrado gli sforzi di renderlo Uno-altro, cioè il tre: sapere il senso. Invece il “mondo” è due, sessuato, ma nel dualismo paradossale di 0 <>1, refrattario a ogni irenismo.

 Se, anche a dispetto di Lacan, c’è qui un territorio filosofico da indicare, un metodo e un compito per il pensiero, esso non è affatto lontano dal pensiero negativo che vive le contraddizioni senza garanzie in un continuo eracliteo. Distante tuttavia dal pensiero debole che interpreta la post-modernità accomodandovisi ontologicamente, tanto da perdere di vista l’ontico. Nessuna critica logica, anzi, si riconosce ragionevolmente che siamo del mondo e nel mondo e non un “extra”, ma può esserci qualche problema che riguardi l’etica.

 Accettata la complessità, la rinuncia a ciò che non rientra nella visione, allo sfondo o alla cosa che non c’è, comporta alla lunga una scarsa propensione per l’azione decisiva, per il “taglio” dopo che ci si è accontentati del verosimile al posto del vero, ed è l’etica che ne potrebbe soffrire.

 Un po’ come la fisica quantistica che non vanta pretese ontologiche extra- matematiche, il pensiero critico non vanterà qualche indipendenza logica e assiologica per la quale qualche verità valga più del senso. Non si può verificare tutto: il compimento del programma trascendentale di Kant non è nella ragione ma nella prassi che si autogiustifica essendo anche prassi di pensiero in cui confluiscano ragion pratica e ragion pura. Anche l’atto più semplice, logico e conseguente sarà un “passaggio all’atto” lacaniano che, scontata la complessità dei “se” e dei “ma” in sia pur rudimentale calcolo di probabilità, taglia corto conservando una coloritura di scommessa pascaliana (pur restando al di qua dell’azzardo insito nell’”acting out” proiettivo e inconscio che, in questo senso, traduce il termine freudiano “Agieren”).  Sembra tradurre per l’etica l’accettazione di un limite della conoscenza in favore della prassi che può vedere metaforicamente imparentatati il principio di indeterminazione di Heisenberg e il principio di ragion sufficiente di Leibnitz.

 Tuttavia assumere la negatività, il perdurante “non è questo” dell’isterica, come verità, è possibile senza escludere l’ulteriore dilemma etico e la scelta conseguente in base alla quale operare: si può, se si sente di doverlo fare, agire come sindaco di Venezia, nella malinconica consapevolezza che il destino della città è segnato nella contraddizione vigente di bellezza e declino.

 Il pensiero negativo non comporta necessariamente né lo scetticismo in senso stretto né il nichilismo morale, ma rimane sospeso o pessimista sul progresso a scanso di residue petizioni salvifiche di tipo messianico (Derrida) o escatologico (Vattimo) che contraddirebbero il metodo.

 Il riscontro pratico ovvero etico è molto semplicemente l’accettazione definitiva che non tutti i problemi umani sono risolvibili. Non dimentichiamo che se non c’è limite c’è follia.

 Conviene essere pessimisti sull’esito delle nostre intenzioni razionalizzate, dice Žižek (lacaniano di sinistra, come Badiou). Solo l’evento aleatorio può presentarsi veramente come dono di positività.

 Facciamo l’esempio oggi principe, quello dell’immigrazione: quando Žižek boccia la “tolleranza della diversità” e il multiculturalismo come atteggiamenti spesso equivoci e pilateschi, promuove giustamente un’alternativa, vivere il disagio dell’incontro, per esempio con l’immigrato, nella sua verità negativa intendendo, da grande hegeliano prima che lacaniano, il “sua” come dell’immigrato e del “buon” intollerante. Ci si può sentire molto perbene a reprimere o ad elaborare la diffidenza che lo Zingaro ci suscita, è facile; invece è meno facile riconoscere il nostro Lebensneid nei suoi confronti, cioè che in verità diffidiamo solo del nostro desiderio di essere come lui. Come colui che sa rubare il godimento.

 Forse, e non è detto, “attraversato il fantasma”, nozione lacaniana di realtà desiderata o temuta, non neutra, il soggetto approderà alla verità politica ed “economica” del suo disagio, verità che trascende i teorici Diritti Umani. O, viceversa, approderà alla poiesis poetica, come nella Kehre heideggeriana.

 Ma dopo? Che positività vi si accorda? Pare niente, ma la vittoria logica del no sul sì è ciò che contraddice in blocco la saggezza morale occidentale dall’Etica Nicomachea in poi e quella orientale dal Tao, affermando che la verità è nel male che si evita invece che nel bene cui si sarebbe inclini! E’ il principio malinconico dell’immunizzazione come fattore di storia universale. Certo, il Poeta può anche trovare “dolce naufragare in questo mare” della negatività.

 Riecheggia con ciò il disperato pessimismo che Adorno esprimeva nel 1944 e l’indecidibilità sulla possibilità di una qualsiasi speranza espressa tre anni dopo, quando l’orrore si era un po’ diluito storicizzandosi.

 “Non c’è più nulla di innocuo… Anche l’albero in fiore mente nell’istante in cui è contemplato senza l’ombra del terrore… Conviene diffidare di tutto ciò che si lascia andare e implica indulgenza per la strapotenza dell’esistente… La stessa socievolezza è partecipazione all’ingiustizia in quanto prospetta il mondo congelato come un mondo in cui si può ancora discorrere… Ogni collaborazione, ogni umanità di rapporti e di partecipazione non è che una maschera per la tacita accettazione dell’inumano”. E, per la possibilità filosofica di pensare una redenzione: “Il pensiero si assume il compito di stabilire prospettive in cui il mondo si dissesti, si estranei, riveli le sue fratture e le sue crepe, deformato e manchevole come apparirà un giorno nella luce messianica”. Ma, riassumo, essendo il pensiero condizionato nel mondo, per essere credibile deve prima svincolarsene, faccenda tanto impossibile che “rispetto l’esigenza che così gli si pone, la stessa questione della realtà o dell’irrealtà della redenzione diventa pressoché indifferente”. (M.M.- 5-153)

 C’è del millenarismo in cui la diacronia, la Storia, esprime il suo sintomo. Il semplice, troppo semplice, buon senso direbbe che non si deve esagerare, ma bisogna andare oltre per arrivare a dire che esagerare non si può, pena l’espulsione logica dalla stessa ragione dialettica e pertanto da ogni possibilità che il lamento sia giustificato o anche solo accolto in un discorso comune.

 La radicalizzazione del pessimismo, come quella dello scetticismo, non può procedere oltre il suo punto di aporia segnato dal paradosso del mentitore ovvero dell’identico tautologico. I sociologi di Francoforte lo sapevano bene e quando illustravano l’inumano della loro (e della nostra) epoca facevano inevitabilmente cenno a qualche possibilità più umana d’essere che potesse trasparire nel rovescio della tela dipinta dal loro stesso discorso. E’ già molto, si sarebbe già usciti dalla solitudine celibataire, se altro non si può. Il fantasma di un interlocutore d’eccezione, forse una Lettrice, si scorge talvolta sullo sfondo del loro pensiero negativo e della loro scrittura sconsolata.

 Che la critica solitaria del mondo in cui si è (e che si è come frutto della storia umana) si prenda dalla parte dell’inizio, da un inesistente puro soggetto pre-storico, preteso naturale, o dalla parte della fine, fausta o infausta, messianica o immanente che sia, non solo si farà come il barone di Münchausen che si solleva tirandosi per i capelli, ma, anche se si realizzasse l’impossibile, ci si troverebbe nel possibile più banale (e kantiano): librarsi tra l’inumano di una verità-autenticità naturale e una inumana purezza escatologica, tra le due facce simmetriche della metafisica.

 Il lamento del pessimista è da intendere piuttosto come una trasformazione del vagito primitivo che ha incontrato una risposta tanto compatibile da sottrarlo al triste destino del grido autistico. Il lamento si oppone al nichilismo dandogli espressione, è una delle possibili elaborazioni di quella risposta che quando è data lo è per sempre. L’ipotesi che la risposta non sia una pura eco stabilisce nel discorso umano la vitale dissimmetria, per stare alla metafora, di una forza di gravità. Per non girarvi intorno: l’amore nel dialogo.

 E’ in fondo l’abbozzo inaugurale della dissimmetria che l’Altro lacaniano immette in una dialettica della nostra esistenza, nel flusso di relazioni tra i significanti, se vuole significare qualcosa di vivo al di là di avere immediatamente un significato, effetto identitario che solo una religione può promettere ma che può talora verificarsi in qualche psicosi.

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