22. SENZA PAROLE

“La Cosa è ciò che, del reale primordiale, diciamo, patisce del significante”. Incuriosisce l’aggettivo, così evidentemente sovrabbondante: esiste forse per un discorso lacaniano complessivo una Cosa non primordiale che soffra in un reale “primordiale”? E non sarebbe questa una cosa metafisica che permane come pseudo-concettuale in opposizione al “vuoto” e alla quale perfino Heidegger, il suo inventore, negherebbe esistenza?

 Oltretutto una leggera discrepanza, tra il testo originale del VII Seminario trascritto dalla viva voce di Lacan nel ’60, edito per Seuil nell’86, e la traduzione italiana rivista prima da Cavasola e poi da Di Ciaccia, la posizione di una virgola, consentirebbe il dubbio. Nel testo francese, “spazzolato” da J. A. Miller, manca la virgola dopo dirons-nous, cosicché ne viene attenuata a livello stilistico non la peculiarità della “primordialità” ma quella del “patimento”.

 Incredibile poi che, solo due righe sopra, proprio lo stesso reale è definito come illimitato, totale, interno ed esterno al soggetto. Tale, aggiungiamo noi, che la Cosa non possa essergli estranea o supplementare in alcun modo. Proviamo a risolvere la contraddizione?

 “Primordialmente” il simbolico si impone nell’infante al punto da articolare in lui o in lei tutti gli eventi percettivi senza alcun automatismo, la parola della nutrice non è affatto detto diventi significativa più di quanto lo sia la sua lettera, un evento sonoro che non si sa bene cosa debba comunicare che non sia, al massimo, una funzione, appunto, comunicativa.

 Ci vuole l’esca e il catalizzatore, l’illusione che a parlare ci si possa guadagnare qual-Cosa affinché possa avviarsi il processo in cui si annodano Reale, Simbolico, Immaginario.

 Per la psicanalisi l’esca, o meglio la scintilla dell’accensione, compare come pulsione sessuale a ri-fare uno di due, (faccenda impossibile di cui il coito farà mimesi o parodia), il catalizzatore come libido, l’illusione come desiderio, la Cosa come godimento.

 Si può ammettere allora che prima che del significante il reale che ci riguarda, la Cosa, patisca della lettera, “supporto materiale di ogni messaggio”, quando ancora può rappresentare soltanto sé stessa come volontà comunicativa enigmatica, segno, traccia all’incrocio ancora labile dei tre registri “borromei” di Reale, Simbolico, Immaginario.

 Il concetto di lettera è noto ai linguisti post-saussuriani come segno in attesa di decifrazione indipendentemente da un codice in cui sia inserito o meno, condizione questa necessaria ma non sufficiente per la comprensione. Per esempio è il caso della scrittura A-lineare minoica, che si può leggere ma non comprendere finché qualche unione sillabica non rimandi foneticamente a qualche oggetto, mentre un alfabeto è la cosa più deludente che ci sia. E non basta un codice di trasformazione dedotto da una qualche Stele di Rosetta, pari a qualche strumento che traduca ogni nota in un suono particolare, bisogna di principio “credere” nell’accesso a un linguaggio in cui ci sia posto per ogni lingua e vi si possa supporre l’esistenza di più di un senso dato che ogni elemento vi significa solo la sua differenza da tutti gli altri. Non dimentichiamo che per comprendere bene il testo della famosa stele fu necessario conoscere il copto, una lingua indipendente dai tre tipi di segni incisi.

 “Supporto materiale che il discorso concreto prende dal linguaggio”… “da prendere in un sol modo: alla lettera…”, la lettera è per Lacan una manifestazione che può restare anche impregiudicata rispetto un codice linguistico, in sostanza può anche significare solo il suo procedimento come nella action painting di Pollock. Ma anche in questo caso si produrrà nel Reale o da qualche altra parte una callosità sulla quale si potranno depositare eventuali significati.

 Se il significante è dell’ordine del Simbolico e l’oggetto-significato (andrebbe sempre scritto così…) è dell’ordine dell’Immaginario, la lettera è dell’ordine del Reale, di pietra incisa. Neanche rimanda automaticamente per la nostra comprensione a una mano di scriba: in una zona marnosa sulle pendici del monte Ida a Creta mi è accaduto di percorrere un sentiero il cui selciato ancora non so decidere se fosse naturale o artificiale.

 Una lettera può benissimo restare purloined oppure en souffrance, come la lettera della Regina nel racconto di Poe, e produrre egualmente eventi emotivi; d’altra parte, uno scritto, se pure, come vuole Lacan dei suoi Scritti, è fatto “per non essere letto”, tuttavia può determinare un punto di svolta emotivo nel discorso al quale fa riferimento, per esempio il desiderio di leggerlo. Lo stile di Lacan sembra talvolta privilegiare la lettera rispetto il significante ma, guarda caso, trova sempre una via di significazione presso di noi, sia pure di ripulsa, anche senza pregiudizio per un significato. E continuerà a trovarla. Si spera.

 La Cosa è l’indifferenziato in noi prima di noi, prima dell’Altro, prima dell’oggetto e pertanto prima del soggetto che certo all’oggetto non preesiste (Dasein…!), tant’è che in esso soggetto potrebbe essere definita “un vuoto pesantissimo” (di godimento come effetto di Reale). Non sarei il primo a validare per questa Cosa la metafora cosmologica del buco nero. Sostrato e virtualità di ogni percezione, può dirsi meta regressiva della pulsione come l’oggetto è meta del desiderio.

 E’ anche alla clinica che qui si mira. Partiamo allora dal concetto di sintomo.

 Per la scienza e la pratica medica un sintomo è il segno evidente di fatti morbosi meno evidenti; segno o effetto che rimanda a qualcos’altro, allora referenza biunivoca o causa efficiente. Vissuto come un disagio, conserva anche un po’ del suo significato etimologico (greco antico) di accidente, cosa che ci capita contro ogni nostra volontà. La medicina si ingegna a eliminare il disagio come effetto attaccandolo direttamente al suo livello di effetto oppure attaccando la sua causa, la malattia sottostante. Per la psicanalisi invece il sintomo ha un suo senso che può collegarsi a un discorso più ampio, cioè vuole (vuole?) significare qualcosa per qualcuno e in questo qualcosa c’è tutto quanto può interessare un soggetto, causa ed effetto insieme. Si tratta del discorso che, sia chiaro, sempre proponiamo all’Altro come resoconto o progetto intorno gli agi e i disagi della vita.

 Ritorniamo a quanto si diceva all’inizio.

 Nel bambino gli interventi della nutrice sono lettera indecifrata, eventi che vengono a scriversi nel corpo e, tra tensioni, eccitazioni e scariche, trovano vie pulsatorie di deflusso tra quegli interventi in una continua sarabanda che poi per prossimità e sequenze mnemoniche percettive prenderà la forma vitale dell’organismo. Funziona, o almeno sembra per lo più funzionare, la fame trova il latte, la pappa oppure il ciuccio, oggetto “sensato” per la sensibilità delle mucose labiali; ogni scarica trova l’ombra della madre che quieta la crisi in cerca di oggetti che si staccano, trova le mani sensate per la sensibilità di mucose anali e genitali.

 Si forma l’Immaginario, però si forma come insufficienza non comportando facili soddisfazioni.

 L’infante è inerme, hilfsloos, per quanto attiene alla gestione e al governo di piacevolezze e spiacevolezze per suo conto, ma qualcosa può tentare e intraprendere inseguendo il mondo “primordiale” che si stacca da lui, il corpo della madre presso il quale oggetti percettivi rispondono come segni intermedi che rimandano a qualche soddisfazione. Rispondono, così che “il grido si faccia appello” tra enigmi e interrogazioni vocali che, in una sorta di “effetto montante” scavino nel luogo dei bisogni corporei un luogo per il desiderio di un qualsiasi riscontro vocale (soprattutto di riconoscimento, dice Lacan) quando non tutto è più condiviso.

 Ecco l’evento promettente e condivisibile come tutto era in origine condiviso: la corrispondenza della lettera che si apre alla parola. E’ l’evento in cui il Reale si fa pulsione e la pulsione si incanala nella libido per un percorso di desiderio, il discorso che tra metafore e metonimie corteggerà sempre una Cosa che non existe, che è “tutto e niente”, ma che tuttavia dirige il senso verso di sé in un chiasmo (o un “moebius”) di senso e non senso… E’ la vita, sempre “il temibile centro di aspirazione del desiderio”. Per gli heideggeriani: “l’oblio dell’essere”. Per i lacaniani lo sfondo o il negativo in cui, del Reale, con la forbice del linguaggio si ritaglia nel dritto il godimento di vivere e nel rovescio l’angoscia di non sapere l’essere.

 Funziona, bene o male, ma non sempre! Qualche volta non funziona affatto.

 Bene o male funziona a seconda delle piacevolezze e delle spiacevolezze con cui i segnali materni soprattutto vocali si integrano nel corpo disegnandone gli organi e le funzioni all’insegna di qualche godimento, tanto che il senso si generalizzi nell’immaginario e i segni da lettera si facciano significanti di oggetti percepiti o da percepire, rispettivamente nella memoria o nell’attesa: è lo stesso, sono i significati, mai presenti, sempre “rappresentati”, comunque dislocati o differiti. E’ in questo registro, nel registro simbolico che gli eventi più strani si possono trasformare in rappresentazioni da annodare e addomesticare. Funzionerà bene se diventeranno discorsi di apertura all’Altro, meno bene se si ridurranno a sintomi, comportamenti stereotipati per sostituire parole impossibili da dire allorché si dispera di poterle scambiare.

 Non funziona affatto quando l’effetto montante di domande e risposte deraglia, esce di sequenza e si inceppa più o meno prematuramente. Succede quando il grido resta un grido, quando la terribilità di un evento è tale da farlo rimanere nel gozzo, quando non trova ascolto alcuno o quando si scontra con una risposta del tutto insensata, senza appello, definitiva, destinata a restare “lettera morta” con funzione di coagulo del godimento in quanto effetto insensato (e talvolta mortale) del Reale nel corpo.

 In una età non più infantile ciò può accadere per esempio come un evento traumatico bellico: Freud affrontò l’argomento soprattutto nel saggio “Al di là del principio di piacere” traendone il concetto di Todestrieb, una ripetizione compulsiva in cerca di una quiete che in vita non si può trovare.

 E’ solo un esempio di sintomi che stentano ad appellarsi all’Altro, che difficilmente portano un soggetto a chiedere una psicanalisi e che in definitiva hanno seri impedimenti a trasformarsi in brandelli di discorso, a significare un significato sessualmente precario come oggetto d’analisi, l’unico genere di significato che la psicanalisi, “talking cure”, riconosca e voglia trattenere quanto basta per trattarlo.

 In generale sono bestie nere per qualsiasi psicoterapia minimamente seria i sintomi di un soggetto che non ha trovato di che poter confidare nell’Altro, tanto da restare aggrappato alla Cosa unisex, come abbiamo detto, a “tutto e niente”, in conseguenza del prodursi, per lo più nella prima infanzia, di situazioni in cui gli stimoli, tanti o alcuni, non trovano di che diluirsi nel Simbolico, parole per narrarsi all’Altro. E’ quello stadio di uno sviluppo bloccato che Freud chiamava “narcisismo secondario” e che si accompagna spesso a un delirio di autosufficienza in cui prevale l’odio che inibisce il soggetto da veri dialoghi fatti di domande e risposte.

 Un sintomo è una maniera di godere, a suo modo significativa, un paradigma, direbbe J. A. Miller, ma può anche essere una protesta più o meno disperata per l’enigma che resta tale negando la chiave che possa aprire il varco per un senso, per una qualsiasi direzione delle trasformazioni immaginarie che altrimenti rimangono quelle inani dell’incubo o del vizio.

 A volte, per accettare il godimento ci vuole il coraggio di accettare il sintomo, di fare del proprio sintomo il proprio partner, compagno d’avventura, pur senza l’illusione che questo ci esima del tutto da quel po’ di angoscia che sempre accompagna il godimento. Virgilio, per esempio, fu, con Beatrice peraltro, il sintomo di Dante (né l’uno né l’altra lo esimono dall’attraversare l’inferno) come l’analista lo è per l’analizzante in più di qualche tratto del percorso analitico.

 Ci sono sintomi che avvertiamo con fastidio in noi e sintomi inavvertiti, ma sempre lasciti primitivi del travaglio infantile verso l’umanizzazione, eventi che hanno trovato di che eternarsi nelle pulsazioni reali-corporee come piccoli o devastanti malanni che interferiscono con le altre manifestazioni (significazioni) vitali, restando ben poco suscettibili di reagire a contatto del significante in proporzione a quanto poco ne sono stati toccati in ordine ad integrarsi nel senso e diventare uno stile.

 Eccoci nel campo in cui l’Altro o non c’è come alterità o è respinto ai margini, il campo variegato delle manifestazioni psicotiche, delle caratteropatie e, in definitiva, anche della nostra cara ordinaria follia quando ciclicamente ripetiamo i momenti in cui all’Altro voltammo le spalle delusi dai significati.

 Si può anche non farne un dramma, quante volte abbiamo lasciato che una rappresentazione o una nostra parola venga abbandonata orfana di qualsiasi riscontro? Uno dei più comuni e innocui piccoli deliri della “patologia della vita quotidiana” è l’improvviso, coattivo e ripetuto emergere alla memoria di un evento improbabile, talvolta una parola isolata, spesso un frammento di discorso, molesto in quanto irrilevante e apparentemente insensato: non ha voluto o potuto trovare di che legarsi ad altri eventi e parole ed è rimasto là, “wo Es war”, in perentoria attesa.

 Nel fastidio che porta con sé, riecheggia una sua primitiva scabrosa inaccettabilità a livello di Super-io. Ce ne possiamo liberare solo consegnandolo ad altri, come fa Mark Twain con l’ossessionante motivetto “deh punzona controllor, il biglietto al viaggiator”… Non c’è qui con noi Mark Twain per spiegarci cosa esattamente vi fosse di unheimlich nel futile ed inopinato ritornello e non ci risulta che lo sapesse. Noi un sospetto l’avremmo, qualcosa in cui riecheggiasse il suo pseudonimo proveniente dal ritmo con cui sui battelli del Mississippi si scandagliava il fondo del fiume mentre moriva suo fratello. Lo scriviamo solo per un esempio di interpretazione “selvaggia”.

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