20. TEORIA

Il percorso intellettuale di un maitre a penser non progredisce sempre linearmente, per approfondimenti e affinamenti, ci possono essere delle svolte e addirittura sconfessioni di posizioni precedenti, ma tutto ciò, puntando a un progresso incondizionato, risente tuttavia della logica dello sviluppo, una perdurante risposta adattiva ai condizionamenti delle origini formative. E’ il rovescio dell’errore di pensare che ci sia necessariamente progresso per saldi successivi nell’avanzamento di un pensiero nel tempo o che ci sia necessariamente progresso nella Storia.

 Lacan incontra lo strutturalismo non solo dopo aver incontrato il soggetto dialettico e sincronico di Freud, ma anche, e prima, il soggetto dialettico e storico di Hegel; in entrambi i casi espressione di una lotta tra istanze diverse che faticano a relazionarsi, tanto da mettere in crisi l’unità e la preminenza dell’Io pur senza oltrepassarlo in quanto entità. E’ nel secolo XX che maturano nuovi riduzionismi (la cibernetica, per esempio) per rendere ragione della complessità come mondo di relazioni compatibili in cui viene meno l’idea spaziale di interno ed esterno e l’idea temporale di causa ed effetto. Sempre di immaginario si tratta, del buon vecchio immaginario che presiedeva alla vita preistorica dei “bestioni” vichiani che si possono supporre non ancora infettati dal Simbolico. Lo stesso immaginario che, lo si voglia o meno, presiede alla scienza e alla filosofia.

 Non fa perciò meraviglia che in un periodo maturo della sua speculazione e del suo insegnamento, alla fine degli anni ’50, Lacan si allontani dallo strutturalismo puro, per esempio, di un Levi-Strauss, che non ammette variabili indipendenti come concetti orientativi per un soggetto pratico, disperso viceversa nei significanti e puro effetto di relazioni simboliche, pertanto abrogato come entità: ecco allora che prendono forma non solo le tre fondamentali categorie che, al livello di rappresentazione della realtà, presiedono alla condizione soggettiva umana (le chiama prudentemente “registri”…) legate come sono nel nodo borromeo, il Reale, il Simbolico e l’Immaginario, ma anche due poli attrattivi che al soggetto diano qualche consistenza di struttura, non solo immaginaria, qualche possibilità di equilibrio oppure di squilibrio nel suo posizionarsi tra i significanti.

 Questi due poli attrattivi attengono al “parlessere”, “al tempo dell’enunciazione e non a quello dell’enunciato” o di ciò che immaginiamo di essere come corpo e mente. Ne costituiscono la logica e fanno buco e beanza, ovvero eccezione e precarietà nel Simbolico, nel linguaggio inteso come struttura di significanti relazionali privi di significato autonomo e men che meno di referente cosale, parole per dare senso alle cose in loro assenza anche senza spiegarle. Un polo è il minimo oggetto (a), un residuo refrattario ad ogni possibilità di entrare nel gioco del senso; un resto a-linguistico distinto nel luogo del linguaggio, un luogo che i significanti non sono riusciti a simbolizzare, che aggirano e annusano “come l’Adige Verona”. E’, dice Lacan, mancanza simbolica “causa di desiderio”, lasciando intendere che il desiderio impegnato a immaginare l’oggetto che lo soddisferebbe è la messa in scena del desiderio inconscio, personalissimo e al contempo impersonale in quanto del tutto avulso rispetto l’Io discorsivo, seppure in grado di condizionarlo. Il desiderio inconscio può essere pensato, cioè saputo, intanto come un fastidio per l’assenza del suo oggetto significabile. Nell’infante, cioè nel momento formativo del soggetto, si può supporre si tratti di quell’”uno che deve mancare perché l’uno possa cominciare”, parafrasando una delle più felici formulazioni lacaniane.

 A fronte di questo buco simbolico, un’altra apertura, l’Altro, l’interlocutore universale o il buon non-finito di hegeliana memoria. Lacan non lo dice, ma potremmo pensare che si presenti anch’esso come attrattore del desiderio, causa retroattiva, in questo caso, essendo l’Altro anche un “oltre”. Si limita a dire che “il desiderio è desiderio dell’Altro”, lasciando campo al sillogismo per cui è nell’Altro la causa della causa del desiderio. Che è lì che è d’uopo cercarla, nella sua, di mancanza.

 Una tra tante metafore: due poli come aperture contrapposte che facciano del Simbolico un organismo vivente parassita che potrebbe addirittura essersi sostituito all’essere umano in quanto a prospettive evolutive. Metafora tuttavia frettolosa perché si tratta più di inconsistenza e permeabilità delocalizzata che di luoghi di scambio pulsatorio con un esterno.

 Per quanto riguarda la psicanalisi, sta di fatto che nel transfert l’analista rappresenta per il desiderio dell’analizzante entrambe le vacuità simbolico/strutturali, sia l’oggetto (a) fuori sapere che l’Altro come “soggetto supposto sapere”.

 Non c’è per questi due poli alcun ancoraggio nella consistenza immaginaria oggettuale su cui i significanti sembrano reggersi nel significare comunque qualcosa, i significati nella rappresentazione; non si determina tra essi un clinamen osservabile e scrivibile nelle relazioni in cui le cose trovano senso; nessuna mappatura preliminare alla pura logica intrinseca, una sintassi che rispetta lo iato (non per forza contrapposizione) tra la realtà esistenziale e un Reale inattingibile per senso e resistente al pensiero eppure attivo nella struttura delle trasformazioni significative: l’impossibile completezza dell’Uno, intrauterina, è definitivamente alle nostre spalle, ma nel nostro cammino nella vita, nel molteplice, rimane come nostalgia che, anche in Lacan, tempera ogni teoria dualistica.

 Nell’Altro nasciamo all’umanità. Qualcuno ci ha nominati e riconosciuti, poi si è prestato alla nostra interrogazione quanto basta per eternarsi presso di noi come simbolo e garanzia che sia valsa la pena di uscire dalla simbiosi uterina e che il trauma sessuale enigmatico possa avere un senso che esuli dalla mortale nostalgia di un Eden atarassico ed ebete. Una presenza antica, senza volto, non l’Altro epifanico, per esempio, di Levinas, adatto al confronto speculare. Beh, in teoria, perché le sue raffigurazioni strutturali non si contano, a partire da un corpo e un’anima personale per finire con un corpo e un’anima universale che rimedino al “fuori senso” del Reale.

 C’è nel soggetto umano dissimmetria con quell’interlocutore interiore fatalmente (simbolicamente) privilegiato rispetto ogni altro occasionale, tanto privilegiato che il significato di ogni messaggio si ricrea in ricezione come vidimato dall’Altro, restando fatalmente (simbolicamente) un po’ sibillino in emissione. Sappiamo che Lacan si spinge a dire che l’umano è l’essere “che riceve il proprio messaggio dall’Altro in forma invertita”. Ogni messaggio esprime una domanda di essere compreso che ha già in sé una risposta affermativa anche troppo ottimista alla prova dell’obiezione più o meno tacita che molto probabilmente riceverà.

 Per inciso, situare l’Altro radicale nella struttura simbolica è una delle massime difficoltà che il pensiero di Lacan abbia incontrato. Se ne può uscire solo uscendo dalla sincronia del linguaggio in cui nessun significante manca in quanto tale, formulando una diacronia lineare del discorso soggettivo. Una metafora dell’irreversibilità entropica in cui lo stato di equilibrio sia l’impossibile non-senso in cui ha preso forma la sessuazione come impossibilità di sistemi umani chiusi, sia biologici che logici, per Lacan nella logica del non-tutto e di esclusione interna. Apertura al femminile e apertura femminile al Reale.

 Per capirci qualcosa, sbrogliare la matassa, c’è un punto teorico/pratico, cioè induttivo, che deve restare assolutamente fermo: il precursore dell’Altro lacaniano è la nutrice, la madre, il “demiurgo” della struttura comunicativa in cui si implica e si esplica la vita soggettiva. Più di un tramite: in lei, ma non per lei, il mondo prese la forma destinata a trasformarsi in senso delle cose. La scintilla del senso è cortocicuitaria, tra godimento e bisogni da un lato e parole e desiderio dall’altro.

 Ecco allora, non sono certo il primo a notarlo, che è il punto soggettivo del desiderio inconscio della madre/donna il fulcro di ciò che muove il discorso umano in essere come un riflesso corporeo ovvero un “affezione” della parola, o, come dice Lacan, di Lalingua, un che di vivente collocato tra noi e il linguaggio che ci pertiene ma non ci appartiene. Il soggetto è il riflesso di un soggetto: si conferma nel registro del Simbolico ciò che avviene nel registro immaginario allo “stadio dello specchio”, quando il bambino, vedendosi simile agli altri, si identifica con il proprio corpo in base a forme e possibilità dinamiche destinate ad organizzarsi tra eventi significanti altri eventi, intorno al senso causato dall’intervento soggettivo materno attraverso le parole che sottolineano i godimenti sensuali infantili.

 Il desiderio inconscio della madre/donna è in sé desiderio altro, desiderio che si dica. Ancora senza pregiudizio per cosa si dica, pura Legge simbolica, ma questo il bambino non può saperlo e immagina qualche vago oggetto del desiderio materno implicato nei godimenti delle cure e nei misteri dell’assenza, oggetto che vorrà fare suo pur nella sua indeterminatezza. E’ la questione del Fallo, mancanza di significato ma non di senso.

 Nel rapporto tra il neonato (nato al bisogno) e la nutrice, il punto di incontro che dobbiamo supporre esista nelle moine della lallazione, un protolinguaggio, assume un significato misterioso da un lato quanto preciso dall’altro: che il bimbo o la bimba parli. Sempre di parole d’amore, di Eros si tratta, qui entra in ballo tutta la faccenda freudiana dell’erotismo infantile e poi dell’”Edipo”, ma fondamentale è che non c’è simmetria né sapere conclusivo in quel rapporto. E’ il gioco della “lettera”, del messaggio materno fine a se stesso in quanto a significazione, che si trasforma significando nel neonato parole più o meno promettenti e più o meno enigmatiche. Due ignoranze girano intorno all’esca del desiderio, intorno a una mancanza d’essere per l’assenza di oggetto corrispettivo e complementare, e a una voglia, per essere, di essere intanto riconosciuti, di suscitare affetto. Nella domanda di presenza affettuosa da parte del bambino, domanda che trova nel daffare della donna un limite alla possibilità di trovare sempre udienza e avere sempre risposta, la libido freudiana si scioglie in desiderio e parola simbolica. Naturalmente un freudiano sa che simbolo e sintomo sono quasi sinonimi, sintomo come simbolo (significante) bloccato, che non fluisce, e che i primi simboli rappresentano movenze erotiche perverse polimorfe. E’ il momento logico, non cronologico, di alienazione/separazione, attaccamento incorporante e distacco esplorativo in cui si esce dal tutto indifferenziato, dal caos. Si esce in due, con l’Altro, in barba a ogni monismo ma anche ad ogni dualismo ingenuo, essendo il destino dell’Altro molteplice e indefinito, alterità dispersa entro e fuori di noi.

 Il momento, poi, del gioco del rocchetto del nipotino di Freud, il gioco del fort e del da a 18 mesi d’età per cui nell’assenza del significato sorge la presenza del significante che è allo stesso tempo poietico e consolatorio- esorcistico della mancanza. Ma è sempre mancanza, come è sempre sottratta la borsa sotto la minaccia “o la borsa o la vita!”. Che altro se non l’assenza di senso dell’esistenza in sé?

 Che il Nome del Padre e il Fallo restino i tarocchi lacaniani decisivi per poter leggervi il senso è un fatto della teoria, ma non è escluso che possano diventare un dettaglio: con la sincronia degli strutturalisti non credo si debba esagerare fino al punto di farla coincidere con il tempo dell’umano destino. Di eterno, nell’umano, c’è solo il limite. Segnato non tanto da grandi misteri superni quanto da un impossibile non-senso come oggetto inattingibile tra i significati latitando nei significanti: il lacaniano piccolo oggetto (a).

 In ogni caso cicli di alienazione e separazione si riprodurranno anche in seguito, nell’innamoramento, per esempio, e anche nel transfert in psicanalisi.

 Tornando alla mamma e alla progenie, quella doppia impossibilità di sapere o, più precisamente, di dire la Cosa ultima e insensata, il Reale “extimo”, interno/ esterno che urge come un bisogno destinato a restare tale come pulsione, un “motivo impossibile” solamente alluso nell’oggetto (a) che resta un miraggio, difetto di corpo e di parola, si svolge il destino dell’inconscio e del soggetto, maschile o femminile che sia.  Se l’antico oggetto del bisogno che non ha trovato la sua parola, restando come buco simbolico in cui si infila ogni significato immaginario, si fa causa del desiderio (pertanto metonimico nel repertorio dei suoi oggetti), la Cosa della pulsione, il buco nel Reale che fa posto all’Essere simbolico, resta causa del godimento, da intendere come nostro essere corpo con tutte le pulsazioni che lo caratterizzano.

 Non c’è per la pulsione un orlo dotato del parapetto del senso (e del supposto rapporto sessuale…) da cui scrutare il buco in cui l’oggetto, il significato, possa apparire. Tutte le trasformazioni sono possibili, tra soggetto ed oggetto, pulsione e desiderio, nell’immaginario tra il cavallo e la motocicletta o il centauro, l’aquila e l’aeroplano o Icaro, il pesce e il sottomarino o la Sirena, ma non c’è trasformazione della Cosa poi che uno si è moltiplicato irreversibilmente: ci può essere al massimo l’effetto cieco, appunto come pulsione a reficere unum. La Cosa non significa niente, non si relaziona, perciò le si suppone accanto un oggetto o un altro fino a quello che significa tutto e niente, il fallo. Nella considerazione che non significhi niente è l’angoscia. O l’”afanisis”, la scomparsa del desiderio come funzione simbolica che può trovare consistenza in un oggetto, come dire in un significato.

 Si arguisce che l’essere umano conosce il mondo fantasmagorico che ha come l’animale conosce il ristretto mondo che è.

 Solo in questi termini, in cui può avvenire il cortocircuito “metafisico” di senso (sesso e linguaggio…) e non-senso (indifferenziato pre-logico e pre-erotico), l’azzardo di Lacan per cui l’essere umano, ovvero il Soggetto, più che abitare il linguaggio come voleva Heidegger, lo sarebbe tout court in quanto “parlessereeffetto di desiderio e causa di godimento, appare realistico. Di sicuro lo sarebbe mentre si arrovella su cosa egli sia.

 A dire il vero questo Lacan non l’ha mai detto, anzi, nella fase finale del suo insegnamento ha detto che “si pensa sempre contro un significante”, il che, pur risultando vero intuitivamente, non decide affatto che noi siamo il pensiero come, per esempio, ha deciso ieri l’altro la Levi Montalcini quando, ultracentenaria, alla domanda di come si sentisse rispose: “Io sono la mente, il corpo faccia quello che vuole” sorvolando sul fatto che non solo non c’è scienziato, ma neanche scienza se non c’è l’immaginario corporeo. La res cogitans cogita soprattutto cose della res extensa con gli intoppi nel non-senso del Reale e, come se non bastasse, nel desiderio che è tra una res e l’altra. L’assioma più caro a Minerva, il “tutto unificabile” (prima o poi) su cui la scienza si basa, non vaga nel vuoto. Il sum precede il cogito.

 Lacan non ha detto neanche che il linguaggio, in fondo “un’elucubrazione intorno a Lalingua”, coincida tal quale con il Simbolico, definito solo dal fatto che ciò che ha senso è un significante (compreso il soggetto che lo dice…), ma è meglio dirlo, se con lui, Lacan, vogliamo opporci ad ogni possibile oscurantismo, perché è il linguaggio che in pratica può tenere a bada l’Immaginario, con il quale non si sa mai cosa possa succedere. E poi non facciamo altro che attenerci alle sue parole, sia pure interpolandole: “il simbolico è il luogo dell’Altro”… “l’Altro è il luogo del linguaggio”!

 Cortocircuito di senso e non-senso, si è detto, fallimento o impossibilità di rapporto, perciò nessuna conciliazione tra senso e non senso e nessuna metafisica. Nel momento in cui apprendesse un Reale (proto o meta-sessuale) sovrastante la struttura simbolica, sia pure ridotta questa alle famose relazioni elementari di parentela, la mente svanirebbe non prima di attraversare qualche territorio psicotico. Non dimentichiamo che la corrente oscillatoria della significazione (i discorsi) che si genera tra (a) e Altro, ovvero il soggetto che si muove come significante tra le due vacuità del Simbolico, tra l’oggetto insensato e l’opposta possibilità di parole, può soggiacere al livello reale del corpo a un diverso cortocircuito, quello dell’acme detta orgasmo nell’eccitazione erotica.

 E’ anche a questo punto del progresso teorico che l’Altro può perdere la sua consistenza mitica, quella che Levi-Strauss non mancò di criticare, e integrarsi, a fronte di un Io da intendere come semplice effetto strutturale, in un soggetto tanto diviso da perdere definibilità identitaria.

 Dis-ordini di sesso e di genere, di-visioni, faglie in cui potrebbe balbettare “un discorso che non sarebbe del sembiante” perché il Reale non è quella realtà che si accorda con il senso e perché seppure il Simbolico preferisce, da che mondo è mondo, tenersi accosto all’Immaginario, là dove ci sono i significati sembianti, egualmente è forte la nostalgia dell’origine, della lettera sessuale, della ripartenza da zero per accostarsi al Reale. Tentazione che, fuori dall’immaginario perverso e dalla sua sconfessione psicotica, si esprime nella matematica, nella scrittura delle mistiche e nell’atto analitico in cui si fa sapendo di non sapere quello che si fa. Che altro se non il “discorso che non sarebbe del sembiante?

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