16. ADOZIONI POSTUME

 Nella sua appassionata militanza lacaniana Massimo Recalcati arruola Elvio Fachinelli nella nostra vasta e variegatissima compagine. Magari, ma Elvio mai si ritenne né fu lacaniano.

 Lo chiamo per nome perché così voleva lui quando, nei mesi in cui preparava “L’erba voglio”, mi trovai insieme ad altri sessantottini, tutti più giovani di me, nel pellegrinaggio che si faceva per andare a trovare quel dolcissimo uomo a Milano sotto l’impressione che ci aveva fatto la sua recensione di “Lettera ad una professoressa” e qualche altro intervento in “Quaderni Piacentini”. Gli chiedevamo opinioni su Reich, su Marcuse, su Chomsky, non su Lacan, che egli conosceva di persona come pochissimi altri in Italia, eppure è da lui che sono quasi certo di averlo sentito nominare la prima volta. Era l’inverno tra ’70 e ’71, mi muovevo con facilità da Brescia dove risiedevo per un periodo di tempo circoscritto. All’inizio dell’estate mi trasferii e non lo rividi mai più. L’anno successivo fu pubblicata una raccolta di scritti di Lacan con il titolo “La cosa freudiana” che acquistai subito e che mi accompagnò in letture e riletture per qualche anno fino a quando uscirono gli “Scritti”. In seguito acquistai anche i libri più importanti di Fachinelli fino a “La mente estatica” che uscì nell’anno della sua morte.

 E’ a questo testo che Recalcati fa riferimento nel suo articolo per renderci l’immagine di un Fachinelli lacaniano.

 Mi fa un effetto straniante, come se avesse letto l’inizio del libro, il resoconto lirico di Fachinelli di una esperienza di sentimento “oceanico” alla Romain Rolland, per capirci, ma poi si fosse stufato di continuare la lettura fino alla fine.

 Nelle pagine dedicate all’interesse per il fenomeno dell’estasi mistica, che lo accompagnò, dicono, fino agli ultimi giorni, effettivamente compare un esplicito riferimento all’apertura, alla “beance” lacaniana che un “femminile senso altro delle cose” potrebbe aprire entro il senso patriarcale, cioè entro il mondo simbolico garantito dal Nome del Padre. E’ lo spunto lacaniano che aveva già avuto tutta la sua rilevanza, aperta a sviluppi imprevedibili, nel seminario “Ancora” che il sagace stratega J. A. Miller aveva fatto uscire tra i primi, pur essendo esso il XX°, cioè uno degli ultimi.

 Per inciso e per quanto mi riguarda, è dalla lettura di quel preludio lirico e visionario, dalla seducente immagine delle regge cretesi aperte sul mare senza mura a cingerle, abitate dalle libere donne in cui Nausicaa oppure Europa si moltiplicano, che è cresciuto in me l’interesse per la civiltà detta “minoica”, prima figlia mitica e poi madre simbolica, per nome, di Europa.

 Tutto il libro effettivamente si impernia nella prima parte sul problema del femminile e della bisessualità, cioè sull’ipotesi di una verità estatica (che, per esempio, Derrida, nel saggio del 1975 “Le facteur de la vérité”, liquidava dandole il significato di una smentita del Fallo, ovvero come lacaniana alternativa non ben delineata a un “fallogocentrismo” lacaniano) e nella seconda parte su una appassionata ribellione all’aforisma lacaniano per cui “raffrenare il godimento è l’essenza, non un accidente, di ogni formazione umana”.

 Soprattutto questo secondo filone, interpretato come una tendenza a fuggire dall’eccessiva felicità, occupa il penultimo capitolo del libro con una puntigliosa rivisitazione del rapporto di Freud con Fliess, e poi l’ultimo capitolo con la critica alla dialettica lacaniana della Cosa come quel percorso che da un indifferenziato caotico, passibile di ogni godimento “perverso”, conduce alla sublimazione. Cose da leggere, soprattutto a riguardo del famoso episodio tipo “sindrome di Stendhal” toccato a Freud sull’Acropoli.

 Ma qui ci troviamo nell’antico equivoco di Reich o di Marcuse che confusero la castrazione simbolica freudiana, per cui “il godimento deve essere rifiutato affinché possa essere raggiunto sulla scala rovesciata della Legge del desiderio”, con la repressione inutile e punitiva operata da un Super-io edipico fattosi collettivo, socioculturale.

 Dunque, il libro uscì nel 1989: alcuni anni prima era stato pubblicato il carteggio completo delle lettere di Freud a Fliess e il libello del curatore Masson “Assalto alla verità”, che il Cesare Musatti didatta di Fachinelli definì immediatamente e giustamente “una mascalzonata”.

 E’ strano che a Recalcati sembra sfuggire l’appartenenza di questa parte finale del libro al novero della letteratura freudiana e lacaniana passata per la penna di freudiani e lacaniani più per sé che in sé, cioè di quei teorici della psicanalisi che deviano dai testi dei due padri cercando nella personalità o nella biografia dell’uno o dell’altro le ragioni di ciò che nella dottrina crea loro dei problemi. E’ un metodo che di rado porta buoni frutti, per lo più una perdita di tempo al servizio di qualche resistenza, di qualche legittima “volontà di non sapere” o di qualche, scusate il neologismo, anempatia, che fa ostacolo alla modesta ed onesta ripresa di qualche punto rimasto sospeso tra i tantissimi altrettanto sospesi o appena fatti balenare nei discorsi testuali dei maestri. Solo questo sarebbe il metodo che, sia reso onore a Recalcati, perché è di solito il suo metodo, porta un lacaniano in sé ad esserlo per sé anche più che per Lacan, senza puntare ad avvalersi di alcuna patente o appartenenza D.O.C.

 Tornando nel merito, passati 27 anni, capisco l’impasse teorico, peraltro un comunissimo e diffuso misunderstanding tra gli psicanalisti, in cui si trovò intrappolato Fachinelli: non ebbe fermo il fatto che l’Edipo era un mito per gli antichi Greci come per Lacan, simbolico in tutti i sensi, metafora psicologica priva di valenza antropologica. In altre parole che il neonato non desidera ovviamente un coito con la madre e che né la madre né il padre interdicono un simile desiderio esorcizzandolo nel linguaggio: si tratta solo di trattare come il cuore comanda un impossibile godimento insensato e mortale di fronte al quale l’immaginazione resta impari, malgrado gli sforzi di Melanie Klein. Le frustrazioni terribili tra alienazione nel materno primordiale e separazione nel linguaggio e la eventuale castrazione simbolica come rinuncia alla Cosa in favore di significati oggettuali sono riconducibili allo schema edipico oppure allo schema di “Totem e Tabu” solo ex post, effetti, non cause di Legge simbolica, sostanzialmente sintagmatica in senso linguistico e senz’altro più affettiva che giuridica o tale da poter “scriversi” come necessità evolutiva. In fondo esistono etnie per le quali funzionerebbe male o non funzionerebbe affatto una spiegazione “edipica” del loro sviluppo culturale.

 E’ curioso che in questo inizio d’estate escano due articoli sullo psicanalista scomparso più di un quarto di secolo fa: l’altro articolo è di Antonello Sciacchitano.

 Non contento, in quanto medico psichiatra, di rientrare in una sorta di autoeletta aristocrazia lacaniana, forse ancora deluso dopo più di quarant’anni dal famoso “tripode” che, laico almeno nei due piedi maschili, sappiamo quanto abbia funzionato dopo pochi mesi dalla sua costruzione, si pone sulla stessa lunghezza d’onda di cui sopra, tuttavia dei lacaniani in sé ma, dio guardi, non del tutto per sé.

 Sciacchitano arruola però Fachinelli nella sua scuola eclettica che, anche per non essere istituzionalizzata, sarebbe in grado di produrre cose interessantissime se non privilegiasse il momento destruens epistemologico rispetto il momento construens. A onor del vero ho spesso letto in Sciacchitano invenzioni straordinarie, soprattutto quando esce dalla sua hybris. Cose più interessanti di quelle espresse in questo articolo intorno a un “sapere del Reale” che, a leggerlo, risulta non essere altro che un “Deus sive natura” in salsa darwiniana d’antan o, al massimo, il buon vecchio noumeno kantiano, inaccessibile ma sensato almeno quanto Antonello Sciacchitano o quanto le idee iperuraniche che per fare paradigma danzano fuori dalla mitica caverna di Platone. Oggi è la danza delle particelle quantistiche e dei numeri algoritmici a fare da noumeno. Di sicuro a fare qualcosa, ma cosa?

 L’articolo è facilmente rintracciabile in rete.

 C’è un aspetto hegeliano suggestivo (in senso buono) che riscatta una visione filosofica un po’ regressiva: è quando fa apparire una specie di reciproco avvicinarsi diacronico, storico, e del pari sincronico, logico, tra il Reale da un lato e dall’altro il pensiero umano, in cui è la necessità matematica e la Scienza. Ricorda il processo che il giovane Marx definiva di “umanizzazione della natura e di naturalizzazione dell’essere umano”, ma anche il “terzo mondo” di Popper.

 Certo, il Reale è dappertutto, è “borromeo”. Sembra però ripugnare allo psicanalista milanese che qualche ipotesi creazionista si possa nascondere in qualche salto, qualche catastrofe nel processo lineare di omologazione. Non vuole appellarsi né alla logica delle catastrofi di René Thom né alle “strutture dissipative” di Prigogine. E’ un progressista convinto che vede l’umanesimo come il prodotto di un’elaborazione necessaria e lineare, quell’umanesimo in cui non credevano per ragioni diverse né Freud né Lacan, che si sentivano piuttosto chiamati a produrlo ex novo e in prima persona nella contingenza. A un certo punto, per dimostrare la possibile omologia tra strategie mentali e verità oggettive cita l’apologo o “quiz” lacaniano dei tre prigionieri che per salvarsi devono indovinare il proprio marchio-significato binario stampato sul dorso deducendo qualche certezza dal marchio che possono scorgere sugli altri due, ma sorvola candidamente sul fatto che la faccenda è preordinata, creata in ogni suo aspetto logico dal carceriere.

 In un altro punto cita la risposta di Schroedinger alla famosa certezza di Einstein sul fatto che Dio non giochi a dadi: “Come fai a saperlo?”; Così dà torto al suo assunto di esistenza di un sapere nel Reale, perché né un sapere aleatorio né un sapere, in quanto divino, necessario, sarebbero saperi.

 Non voglio infierire, ma non credo che a Fachinelli sarebbe sfuggito nel prosieguo della citazione da Lacan “il y a du savoir dans le réel” tratta da “Note italienne”, che sono gli scienziati “a loger”, a collocare, del sapere nel Reale. Perché no, magari tramite la tecnologia! D’altra parte, quella frase di Lacan è un apax da non trascurare, ma neanche da mettere in cornice dorata.

 Non credo neanche gli sarebbe sfuggito che non si può eccepire nulla, per esempio il sostituirsi della cultura alla natura come fattore selettivo di significati, dal discorso filogenetico di Monod, lontano da ogni umanesimo, senza aver chiaro preliminarmente che né il caso né la necessità hanno in sé e di per sé alcunché di un sapere. A meno di identificare un sapere nelle regolarità docili ai nostri calcoli spazio-temporali, con il che non si farebbe altro che rivagheggiare il noumeno. Si tratterebbe allora dell’antico vizio scientista occidentale, la tentazione di pensare come se nel Reale (o nella natura) esistessero strutture chiuse e coerenti in sé ovvero indipendenti da assiomi ipotetici che dal “nostro” esterno introducano la misura e il numero, che esistano cioè strutture supplementari a noi, al pensiero umano. Tentazione anti-umanista che, come nota il pio Levinas, può avvelenare perfino il pensiero di Levi- Strauss, proprio quando l’accusa che più comunemente si muove agli scienziati, soprattutto a quelli dell’essere umano, è viceversa di scarsa obiettività, di non limitarsi alla certezza delle misurazioni. Ma no, non esistono strutture chiuse in verità così che vi risieda un senso necessario.

 Il sapere non è il meraviglioso naturale (cui non manchiamo di arrecare qualche fastidio) e non è negli istinti, neanche in quelli socializzanti da ritrovare in uno o un altro principio, semmai nelle pulsioni sintomatiche, che hanno appunto natura di extra-Reale. Il sapere può essere solo riflessivo, una risposta che un soggetto si dà dalla posizione dell’Altro, posizione alternativa a tutto, cui fa appello per avere qualche “dritta” sul godimento, sulla morte e su tutto ciò che di un Reale complementare gli pertiene. Un buco nell’Essere.

 Non c’è sapere nel Reale o del Reale, ma c’è del Reale nel sapere: si chiama inconscio, no?

Poiché agisce sincronicamente questo nome non può essere inteso con senso di provvisorietà. Designa un lato del sapere impossibile perché riguarda il “rapporto” sessuale che non esiste. Il sapere è sapere il sesso neotenico, immaturo, ed è questo forse il commento più appropriato alla doppia interpretazione dell’inconscio come lascito o brandello del Reale e come discorso dell’Altro, altrimenti ambigua al limite della contraddizione.

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