12. OK, WINNICOTT

 Prendiamo per le corna il toro saussuriano / lacaniano: un significante non ha un suo significato.

 Ma naturalmente il significato esiste, eccome: è precisamente l’oggetto immaginario in trasformazione. Una o un’altra faccia presa una alla volta di una sfaccettata imago mundi “prodotta” dai significanti in quanto una o un’altra, non “riferita” dai significanti, men che meno da un significante corrispondente, il quale altrimenti non sarebbe un significante ma un segno.

 L’oggetto è freudiano, parziale. Parziale del corpo infantile/ incestuoso, della Cosa materna rispetto alla quale anche tutto il mondo rappresentabile è parziale.

 In una realtà caotica e indifferenziata (a parte le forme istintuali specie-specifiche simili a quelle di altri primati) percepita primariamente dal bambino attraverso i cinque sensi più uno, propriocettivo quest’ultimo del corpo, l’oggetto è ex-cavato, isolato e marchiato dagli interventi materni, inevitabilmente simbolici in quanto soggettivi (che rimandano ad altro…), come la pioggia cadendo dal cielo produce sulla terra i fiumi, o come nella pietra nasce la statua nell’incontro con lo scalpello dello scultore: l’oggetto che si può vedere e narrare come distinto da colui che guarda. Le semblant. L’Io che guarda è anch’esso un oggetto che vediamo come riflesso in uno specchio, uno tra tanti esseri umani, ma di solito un po’ più pregevole.

 Prima che me lo si faccia notare, la metafora geo-metereologica, non è del tutto in linea con quanto Lacan dice gli aveva ispirato la visione dei fiumi siberiani mentre sorvolava la sterminata pianura tornando in aereo dal Giappone: per lui i fiumi sono “lettera” scritta con effetti di Reale su di noi, struttura inconscia, non quell’apparenza cui nessun oggetto sfugge.

 Nella metafora si potrebbe dire che il soggetto recupera nell’inconscio il materiale alluvionale e di risulta, per farne chissà che cosa, ma di sicuro qualcosa che ha a che fare con il godimento della parola che piove e scorre tra l’infante e la nutrice, per lo più feticci riassemblati con resti del corpo, dell’Io o qualche altra rappresentazione altrettanto seducente. E’ nei sogni che l’oggetto in trasformazione ha la sua evidenza di significato precario (metonimico per Lacan) per la congruità del chiasmo freudiano di sogno e desiderio. Residui dell’Immaginario nella simbolizzazione del godimento.

 Se qualcuno, per esempio Franco Fornari, ha potuto aggirare De Saussure definendo il significato come ciò che si vorrebbe dire, non cambia niente, è infatti l’oggetto ciò che si vorrebbe dire. E non esiste oggetto compatibile con il soggetto, essendone peraltro la sua condizione, che non sia anche “transizionale”, nella terminologia di Winnicott, come la coperta di Charlie Brown: consolante per ciò che manca, tuttavia precario, sempre a rischio, sempre perduto e ritrovato. E’ dal sentore di questa precarietà che hanno origine tutti i sentimenti umani.

 Però mi è sempre parso strano che Winnicott non identifichi esplicitamente, almeno per quel che ne so, l’oggetto transizionale per esempio con il rocchetto nel gioco del “fort – da” che Freud vide fare al nipotino di 18 mesi d’età, da cui l’interpretazione del giocattolo in chiave esorcistica che leggiamo in “Al di là del principio di piacere” e poi l’interesse centrale che assume nel pensiero di Lacan: In quell’apologo c’è per Freud la creazione libidica della realtà, per Lacan la sua evanescenza simbolica. Manca la Cosa, c’è l’evento e l’oggetto presente/assente, il rocchetto, non la mamma.

 L’oggetto che ci assicura una immaginaria consistenza d’essere è il significato stesso e, in definitiva, “le semblant” lacaniano, un qualsiasi evento percettivo che, per essersi compromesso una volta per tutte tra le parole, risulta essere abbastanza disponibile come presenza (immaginaria) tra di esse e per esse. Nel linguaggio simbolico, “compressa” in ciascun significante si rappresenta la “realtà”, di-visa tra un mondo interiore fatto di organi e funzioni del corpo, idee, sensazioni, sentimenti, ecc., opposto e rapportato a un mondo esteriore fatto parimenti di oggetti buoni e cattivi che portano con sé ciascuno una ambivalenza originaria come loro rovescio o, se vogliamo essere gestaltisti, come sfondo. Non ci sono oggetti con cui avere un rapporto direttamente pratico ed asettico del tutto scevro da affettività e senso di perdita.

 Noi non intratteniamo rapporti con le cose, non abbiamo presa su di esse, non sappiamo neanche se il plurale vi si adatti di là della Cosa primordiale e incestuosa: noi, soggetti, abbiamo rapporti solo con gli oggetti predisposti dalle esperienze e dai desideri di altri soggetti. Dal dire l’oggetto noi stessi siamo nati in quanto significati, oggetti compromessi in un rapporto contingente, non necessario, con significanti solo in minima parte attinenti il nostro Io futuro. Gli oggetti del bisogno biologico, nel formato di pattern filogenetici, sono primari, ma non indipendenti, rispetto i significanti che incontreranno e tra i quali saranno vidimati simbolicamente nel loro aspetto immaginario intorno a un’idea di corpo organi-zzato. L’Io e il corpo, l’Io è il corpo, il corpo è una cosa, una cosa della realtà non è la Cosa del Reale. Cosa pensa da principio la mente, res cogitans? Di avere o di essere o di subire il corpo, un proto-significato che si attiva, secondo Freud, in accordo con il principio di piacere ma restando poi a disposizione sotto l’egida del principio di realtà. Lacan stabilisce nel cosiddetto “stadio dello specchio” il momento logico in cui un bambino aliena e contemporaneamente separa nella “realtà” una immagine oggettuale di sé stesso.

 Immaginiamo brevemente come può funzionare il meccanismo: il bimbo si vede nello specchio alla stregua di un qualsiasi suo simile, grande o piccolo, ma vede che l’iniziativa per farlo vivere (muovere) spetta a lui, allora facilmente deduce che sua è la gloria, non di un altro, neanche di quella apportatrice di gratificazioni e frustrazioni la cui presenza, tra tante chiacchiere, ha sperimentato precedentemente: ecco l’Io che si auto-esilia dai godimenti materni/infantili, come se poi fosse facile ignorarli dopo che hanno vagato per il corpo inseguendo la parola e hanno trovato casa nei territori soggettivi in cui sarà l’inconscio a farla da padrone come riverbero delle parole.

 E’ sempre il processo in cui prendono forma le svariate cose dell’esperienza, ma, secondo Lacan, in questo caso a spese dell’oggetto del desiderio, che del Simbolico sarà l’effetto residuo, il non-significato destinato a rimanere inconscio nella sua evanescenza non integrabile nella coscienza ovvero nell’Io e nel Sé. Un “buco”, aggiunge Lacan, continuamente supplito e sostituito in una rincorsa e uno slittamento metonimico tra i significanti, in una ricerca inevitabilmente deludente di ciò la cui forma o essenza non può essere conosciuta in sé perché innominabile: talvolta “totem e tabù” condivisi socialmente in luogo di una mancanza fondamentale.

 Possiamo dire di che si tratta: sarebbe, se ci fosse, l’inammissibile oggetto/significato del desiderio sessuale materno, l’agalma misterioso e non condivisibile che si è disperso irrimediabilmente tra tutte le forme fantasmatiche, immaginarie, in fondo esorcistiche, che gli vengono attribuite. Se prima era supposto della madre poi sarà supposto dell’Altro come desiderio o come feticcio. Vi si presta simbolicamente il fallo dei misteri, scettro simbolico che forse in origine non era altro che l’oggetto fuori della nostra portata, supposto tanto desiderato dalla nutrice da sviarla da cure assidue, tempestive e totali in favore di noi bambini. Simbolo del poter giostrare il godimento che, effetto del Reale, viceversa ci giostra.

 Annotiamo, per inciso, che Lacan fa uno spostamento rispetto Freud, assegna l’Io generico e l’Io ideale al soggetto umano in confezione unica tra diverse componenti, avendo capito che quasi sempre sono la stessa cosa e comunque come oggetti/significati nascono insieme nello specchio.

 Invece l’oggetto cattivo kleiniano conserva un che di originario ed animistico, tanto da non essere di solito un oggetto che si possa volere disponibile, cioè presente/identico per poter trarne magari indirettamente qualche godimento o almeno giovamento: resta sullo sfondo, nel mondo degli accidenti aristotelici, come un “malocchio” che osservi la costruzione di un mondo vivibile e promettente. Si potrebbe osservare a questo punto che l’oggetto cattivo è predisposto per il meccanismo freudiano della proiezione che ci fa notare in altri quello che non ci piace (in noi), come quello buono lo è per l’introiezione che ci fa notare in altri quello che ci piacerebbe (in noi).

 Sta di fatto che i significati da riconoscere più o meno oggettivamente, sono sparsi qua e là, per disposizione (significazione) avvenuta prima dei nostri significanti individuali, con i quali rinnoveranno antichi incontri che ad essi significati assicurino la possibilità di presenza oggettuale, la nostra realtà fatta di “mondo” e di Io, eccezioni più o meno simmetriche e dialetticamente contrapposte nel caos delle immagini percettive relegato allora in secondo piano. Ma “revenant” nei sogni, per altri significati in un’altra struttura parallela e compenetrata a quella della veglia vidimata come sensata, civile, appropriata: l’inconscio non è uno scacco della ragione (o del Simbolico), ma una scelta tra desideri. Se “è strutturato come un linguaggio” lo è perché razzola tra ciò che i significanti hanno perso sulla strada verso l’oggetto del desiderio, recuperando spesso, oltre a relazioni di cui sono l’effetto (è la natura dei significanti essere puro effetto di relazioni…) anche il loro rovescio quando è facile individuarlo, cioè soprattutto in termini di bene e di male. O quando è meno facile, quando cade nella fascinazione dell’Unheimlich, l’ambiguità in cui si manifesta la prossimità con la Cosa.

 Il fatto che il soggetto riflessivo, cosciente di sé ovvero equivocato come Io, sia secondario rispetto l’oggetto lucido e non viceversa, è ciò che permette di pensare che ci sia un corpo in cui noi e gli scienziati possiamo immischiarci e un’anima in cui si possano immischiare tutti gli altri.

 Ovviamente né oggetto né soggetto esistono prima dei significanti e prima della loro assolutamente preliminare condizione logica distintiva che sarebbe il “tratto unario” tra alienazione e separazione infantile: prima del buon vecchio principio aristotelico di identità ci sarebbe eventualmente la Cosa, ma di cui sarebbe improprio dire che ex-sista come “una” identità nell’ind-istinto. Solo Lacan ha saputo far fruttare in psicologia il principio di indeterminazione per cui nella visione lo sguardo e l’immagine si modificano contemporaneamente. Farla fruttare programmaticamente, perché altrimenti vanno ricordati il suo amico Merleau-Ponty e naturalmente il “secondo” Wittgenstein.

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