46. UNA META

 Pasolini venne spesso tacciato di propensioni oscurantiste, di essere un romantico laudator temporis acti. Lo era talvolta, ma non in maniera acritica, lo era per la sua inclinazione all’idea sincronica, non storicistica, della condizione umana. Insieme con la sua inclinazione a idealizzare “il contadino del terzo mondo”. È l’ispirazione che da Rousseau attraverso Tolstoj arriva alla critica della modernità aggirando Marx. Cercava la naturalezza, altrimenti avrebbe idealizzato l’operaio militante di base del PCI, comunque uno dei migliori esempi di umanità.

 Non appartenendo a chiese, per esempio allo strutturalismo che si imponeva nella cultura ai suoi tempi, impersonò al cospetto del mondo la precaria figura del comunista non marxista. Gli capitò di rintuzzare finemente l’accusa, affermando di non essere contro il progresso, di avversare solo lo sviluppo. Qual è la differenza?

 Lo sviluppo avviene nei binari della necessità, attua le premesse insite nelle origini, le sue trasformazioni sono solo apparentemente di qualità, rispondono al principio della natura che non fa salti. Per una metafora, il paradigma dello sviluppo svaluterebbe nel mondo umano, per quanto è possibile, uno dei due poli evolutivi di Monod, il caso, alias l’azzardo del desiderio, come un disturbo di cui patisce il principio della necessità, il tirare a campare, l’a priori genetico destinato da sempre e per sempre a vincere all’insegna del motto: “Che tutto cambi (a livello cellulare proteico) affinché tutto resti com’è (a livello del DNA)”. Freud nel suo realismo primigenio, ispirato più a Hume che a Marx, bene illustra questo paradigma che rimane ben forte nella dimensione culturale nel famoso saggio dedicato al culto di Diana ad Efeso, culto che attirava un fiorente mercato plurisecolare che gli efesini difesero operando al momento opportuno la metamorfosi della dea pagana nella Madonna.

 Il progresso, viceversa, trae la sua tensione da un futuro il cui principio è che tutto può davvero succedere, sia pure, dato che l’umano teme comunque l’evento fortuito, un futuro anteriore, quello tipico di un progetto utopico, mai puramente antagonistico ma anche mai implicato in ordinaria manutenzione. Per progredire bisogna, a seconda del proprio fegato, aprirsi impavidi alla Tyche.

 Sia a livello individuale che collettivo la cartina di tornasole per distinguere tra sviluppo e progresso è la presenza o meno del contraccolpo angoscioso e dell’elaborazione del lutto per la morte di un senso consolidato, anche senso di sé come adeguatezza a vivere: quel lutto è il segno allora di un cambiamento radicale nel soggetto che sopravvive alla scossa del Reale. Non c’è mai vero progresso senza che la metamorfosi venga accettata come una perdita, anche se in verità consiste solo in un trasloco tra diversi ed inediti significati della vita nel viaggio tra significanti e significati.

 Un progressista crede nella forza anche catastrofica del desiderio, estranea a qualsiasi processo meccanico, una forza spesso sabotatrice, talvolta con funzione di orientarlo, il processo. Per attrito o per induzione di forme cambia il farsi della Storia se pur vista come dinamica di rapporti nella struttura economica della produzione che risponderebbe ai bisogni umani. Può essere negato solo per un furore materialistico la cui verità dialettica, Negation der Negation, è l’idealismo di Hegel.

 Tuttavia, il materialismo di Marx era meno ingenuo di quello di tanti positivisti o, per fare l’esempio più consono e abusato, quello di Feuerbach. Non si può non cogliervi cenni di consapevolezza di stare costruendo una monumentale interpretazione della Storia che deborda da qualsiasi antropologia fenomenologica depurata del soggetto, malgrado l’accanimento a negarlo. Ma è proprio in questa residua fedeltà hegeliana (che tormenterà il Lukacs di Pasolini) che si possono individuare le ragioni del fallimento del marxismo quando si prova a concretizzarlo in forma di governo come provvisorio (sovrastrutturale?) passaggio verso il comunismo e l’eliminazione delle classi. Chi non ricorda gli stucchevoli dibattiti d’antan tra i soggettivisti marxiani che spingevano come matti per l’azione rivoluzionaria e gli oggettivisti che attendevano il verificarsi della fatale maturazione, marcescenza e metamorfosi del capitalismo?

 L’apporto che la psicanalisi, con il semi-dimenticato Erich Fromm soprattutto, ha potuto recare alla teoria del marxismo è praticamente uno solo, un significante, ma, come talvolta succede, di portata deflagrante nella teoria: la sovrastruttura culturale, per Marx un effetto dell’evoluzione economica produttiva, ne è viceversa la causa. Non fosse così, perché non chiamarla più correttamente sottostruttura? Si tratta di un’obiezione al marxismo vecchia come il marxismo stesso, espressa però nel caso di Pasolini con un radicalismo non dottrinale. Perché è la cultura il luogo in cui le differenze di genere, di ruolo, di avere e di essere, significanti nei quali si struttura l’economia, trovano la loro incompatibilità e compatibilità dinamica (che Lacan riferisce al godimento, ovvero all’ultimo significato che esista per la logica, in quanto puramente pragmatico).

 Perché il linguaggio mescola le carte: la donna, la morte, la forza, il servo, il matto, il padrone. Vi agisce il desiderio inconscio, “irrazionale”, sessuato e interclassista che, per esempio, può indebolire il padrone e rafforzare il servo, oppure può mutuare plus-valore con plus-godere e comunque sempre muove, al pari e spesso più del bisogno e della forza prevaricante, le avventure personali e anche le piccole scelte individuali, quelle che agiscono in dimensione molecolare nella società e che, crescendo talvolta come per una contaminazione epidemica, prima o poi determinano, nel molare, le discontinuità. Da intendere nel senso delle catastrofi di Renè Thom, o finanche nel senso di Marx, rivoluzioni, però in tutti i casi proprio quelle discontinuità, quei naufragi non solo dei legami sociali ma soprattutto del senso, che lasciano emergere l’impensato, proprio ciò che lo sviluppo non vorrebbe e che caratterizza il progresso.

 Ha perfettamente ragione Žižek a sostenere che c’è qualche ragione “perché valga difendere l’eredità cristiana”: in essa c’è il segno della possibilità del cambiamento come secondo e ulteriore trauma.

 Quella che abbiamo chiamato marxianamente sovrastruttura, una volta poteva chiamarsi spirito, quello che può animare un popolo prima di diventare ideologia, quello che può illuminare un governante trasformandolo in uno statista nella coscienza che è di solito lo Stato a porsi come agente a che lo sviluppo non diventi progresso. Aiutato in questo dall’inerzia del nostro stato d’essere. Cos’è quel “tutto” che per il principe Fabrizio Salina deve restare com’è, se non il principio d’ordine rappresentato nel suo maggiore titolo nobiliare? Che quel principio sia di dominio è un’altra faccenda, ma vale il fatto che ogni “tutto” è inevitabilmente il resto di un principio o, per la precisione, di un significante, sufficiente perché ordine ci sia. Perché ci sia qualcosa che faccia pensare a un senso delle cose.

 Tutto ciò è argomentabile se ci si riferisce al tempo storico, meglio sarebbe dire infra-storico, in cui l’umanità ha già barattato la Natura, il Bios, il Reale, fate voi, con il Simbolico (sono approssimazioni lessicali) talché il desiderio è nato ad insidiare il bisogno e il tempo stesso, il divenire delle cose, è stato immaginato tra nascita e morte.

 Nella preistoria un lentissimo progresso fa aggio sullo sviluppo. Poi, improvvisamente, lo sviluppo si fa impetuosa poiesi di forme nei suoi diversi percorsi, tanto impetuosa da essere spesso scambiata per progresso. Uno sviluppo immaginifico e spesso misterioso sul piano del significato. Uno Hegel beffardo ci sconsiglia di arrovellarci sui misteri dell’antico Egitto dato che erano misteri per gli Egizi stessi. Nel mio piccolo mi sono arrovellato per anni, lasciando l’anima a Creta, per rendere ragione dell’ascia bipenne minoica, darle un significato, per dover concludere che le donne e gli uomini detti (da Evans) “minoici” non ne sarebbero stati capaci più di me. Al massimo avrebbero potuto parafrasare la risposta classica all’antropologo che indaga sul senso di un armadillo allevato come totem o feticcio, “good to think, not to eat…”: “Quest’ascia è più buona per pensare che per tagliare”.

 Ma quale è stato, se c’è stato, il catalizzatore, la spinta nel processo per il quale l’immagine del mondo cambiò e ancora può cambiare? La risposta più ovvia è la scrittura, che consentirebbe accumulo di informazioni, ma a un esame più attento, miti derridiani a parte, la scrittura comunemente intesa appare essere più un effetto, addirittura una reazione, che una causa. La scrittura è un remedium alla scarsa adaequatio delle parole alla pratica.

 Questo limite nell’argomentazione lascia campo alle ipotesi. L’origine della Storia con ogni probabilità coincide con il momento (nel senso che assume la parola nella meccanica più che in quello cronologico) del prevalere di un linguaggio umano simbolico, precario e autoreferenziale, latore prima di Sinn che di Bedeutung, rispetto un linguaggio segnico allo-referenziale, esso sì giustamente reputato necessario in termini evolutivi. Il nostro linguaggio detto naturale è adatto per dare ordini allo schiavo se lo schiavo ammette di esserlo, per interpretare le parole altrui, per sedurre, per mentire anche a sé stessi, ma non per dare ordine ai pensieri affinché si traducano direttamente e continuamente in azioni efficaci per il bene di un gruppo umano evolutivo nel suo insieme. Neanche è detto che pensieri gli preesistano. E il linguaggio non teme le discontinuità!

 D’altro canto, non si può dimostrare che le Gestalten istintuali, che certo comprendevano segnali vocali articolati, funzionino meglio sul piano evolutivo per essere entrate in combinato disposto (sintassi) con le nostre amate e vaghe parole, anzi, sembra che attraverso tremende vicissitudini i segni utili, riferibili ad immagini mnemoniche di eventi, abbiano funzionato benissimo senza troppe chiacchiere fino al Paleolitico superiore.

 Sono grandissime balle tutte le interpretazioni simil-darwiniane della civiltà in progress evolutivo, continuo, che esulano da questo problema. Sono balle anche le “bolle” di Sloterdijk perché a chi sa qualcosa di psicanalisi è chiaro che quella cosa pazzesca che chiamiamo linguaggio naturale, lungi dall’immunizzarci dal trauma, dall’evento freudiano, lo asseconda e lo corteggia come la lingua il dente che duole, a fondare un “eterno ritorno”. Certamente salvo incidenti, intoppi, sviste che si fanno causa di creatività nell’obbligarci a ricombinare parole e produrre il nuovo, ma il fattore di tutto ciò è più il Soggetto (il significante) che il Fato. Il soggetto del desiderio si pone come un fattore tutt’altro che reattivo o puramente difensivo rispetto fattori reputati esterni. Per godere bisogna rischiare. Eros.

 Che Sloterdjik ponga il principio reattivo di immunizzazione come principio di ogni costruzione culturale, una specie di variabile indipendente, cioè che la Storia sia causata da istanze immunitarie che si sommano e sovrappongono, fa pensare ad una certa proliferazione delle pulsioni che sembra essere sempre più presente nelle dottrine psicanalitiche, laddove invece la pulsione è e deve restare una, sessuale e disorientata nell’impotenza fin dall’origine e per sempre come effetto traumatico del Simbolico nel Reale, che scarta di lato un Immaginario naturale, lo sconvolge e lo colonizza.

 Anche di principi di immunizzazione ce n’è e deve esserci uno solo, quello del passaggio dalla natura, dalla presenza, alla cultura, momento, per Lacan, creativo e non evolutivo: non c’è causa individuabile, niente di filogenetico spiega il sostituirsi del simbolo, ovvero del significante, all’oggetto, reale o immaginario che sia, nessuna ragione filogenetica rende ragione del desiderio che eccede il bisogno. E, d’altra parte, senza il linguaggio non c’è negoziazione con das Ding, con la Cosa insensata e rischiosa del Reale distaccato nel soma. In questo, dice Lacan, “sono creazionista”.

 La Weltanschauung di Sloterdjik è un discorso e, come ogni discorso presume un senso, non può fondarlo al di fuori della parola che avviluppa di sé la vita ma crea la morte, privilegio, appunto, di noi mortali: en arché en ho logos! In principio era il verbo, e forse anche dopo la fine.

 Quale rapporto ci sia tra pulsione e linguaggio, quanto e come siano annodati tra loro Eros e Logos. è tutta un’altra storia, ma certo Sloterdjik sembra prediligere nella sua speculazione il campo di Thanatos ben più che il campo di Eros.

 Psicanalisi a parte, tutto ciò doveva essere evidente anche per Stalin, uno cui il linguaggio faceva ostacolo, mezzo tra i meno adatti ai suoi scopi, tanto da fargli ammettere: “Il linguaggio non è sovrastruttura”.

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